CLIVE CUSSLER
ICEBERG
(Iceberg, 1975)
Questo libro è dedicato a Barbara,
la cui infinita pazienza
mi ha aiutato a portarlo a termine.
PROLOGO
Il sonno indotto dalla droga svanì nel nulla e la ragazza incominciò una lotta tormentosa per riprendere i sensi. Una luce fioca e nebbiosa accolse gli occhi che si schiudevano lentamente e un lezzo atroce di putredine le penetrò nelle narici. La ragazza era nuda, e stava appoggiata con la schiena contro una parete umida, coperta di mucillagine giallastra. Era tutto irreale, impossibile, si disse al momento del risveglio. Doveva essere un incubo orrendo. All'improvviso, prima che avesse la possibilità di lottare contro il panico che ingigantiva dentro di lei, il viscidume giallo sul pavimento salì, salì sulle cosce del corpo indifeso. In preda a un terrore folle, la ragazza prese a urlare mentre l'orrore continuava a salirle sulla pelle nuda e sudata. Gli occhi quasi le schizzavano dalle orbite. Spinta dalla forza della disperazione cominciò a dibattersi. Fu inutile... i polsi e le caviglie erano saldamente incatenati alla superficie viscida della parete. A poco a poco, la mucillagine ripugnante salì all'altezza dei seni. E poi, mentre l'orrore indescrivibile le sfiorava le labbra, un ruggito vibrante e una voce fantasma echeggiarono nella camera buia.
«Scusa se interrompo il tuo periodo di studio, tenente, ma il dovere ti chiama.»
Il tenente Sam Neth chiuse di colpo il libro. «Accidenti, Rapp», disse all'uomo dalla faccia acida che stava seduto accanto a lui nella cabina dell'aereo. «T'intrometti tutte le volte che arrivo a un punto interessante.»
Il guardiamarina James Rapp indicò il tascabile: sulla copertina troneggiava una ragazza immersa in una vasca di mucillagine giallastra. Probabilmente, rifletté, la donna era tenuta a galla da quel paio di seni enormi che si ritrovava. «Come fai a leggere simili boiate?»
«Boiate?» Neth fece una smorfia. «Non soltanto invadi la mia privacy, guardiamarina, ma ti autoproclami anche mio critico letterario personale.» Alzò le mani in un gesto d'ironica disperazione. «Perché mi hanno assegnato un copilota dal cervello così primitivo da rifiutarsi di accettare lo stile e la raffinatezza contemporanei?» Neth si chinò e posò il libro su un ripiano rudimentale appeso a una stampella per indumenti. Sul ripiano erano allineate anche numerose riviste gualcite che mostravano corpi femminili seminudi atteggiati in pose seducenti. Era evidente che, in fatto di letteratura, le preferenze di Neth non andavano ai classici.
Neth sospirò, si assestò meglio sul seggiolino e guardò attraverso il parabrezza il mare che si stendeva sotto di lui.
L'aereo della Guardia Costiera degli Stati Uniti era in volo da quattro ore e venti minuti. Doveva fare servizio di pattugliamento per otto ore in tutto e la sua missione era quella di sorvegliare gli iceberg e segnarli sulle mappe. Sotto il cielo sereno, la visibilità era perfetta, e il vento muoveva appena le onde lunghe... una condizione straordinaria per l'Atlantico settentrionale alla metà di marzo. In cabina, Neth, con quattro membri dell'equipaggio, pilotava il grosso quadrimotore Boeing, mentre gli altri sei erano al lavoro nel compartimento di carico per tener d'occhio gli schermi radar e gli altri apparati scientifici. Neth diede un'occhiata all'orologio, quindi fece virare l'aereo e puntò il muso su una rotta diretta verso la costa di Terranova.
«Ecco sbrigato il mio dovere.» Neth si rilassò e tese di nuovo la mano per riprendere il tascabile. «Per favore, dimostra un po' d'iniziativa, Rapp. Non voglio più essere disturbato fino all'arrivo a St. John's.»
«Farò il possibile», rispose Rapp in tono severo. «Se quel libro è così avvincente, perché non me lo presti quando lo hai finito?»
Neth sospirò. «Mi dispiace, ma non presto mai i volumi della mia biblioteca personale.» In quel momento sentì un crepitio in cuffia e prese il microfono. «Okay, Hadley, che c'è?»
Nel ventre fiocamente illuminato dell'aereo, il marinaio di prima classe Buzz Hadley fissava intento il radar. Il suo viso era illuminato dal riflesso verdastro dello schermo. «Qui ho una lettura strana, signore. Ventotto chilometri, direzione tre-quattro-sette.»
Neth fece scattare l'interruttore del microfono. «Sentiamo un po', Hadley. Perché dice che è strano? Si riferisce a un iceberg, oppure ha sintonizzato il radar su un vecchio film di Dracula?»
«Forse sta captando il tuo romanzo dell'orrore», insinuò Rapp.
La voce di Hadley si fece sentire di nuovo. «In base alla configurazione e alla grandezza è un iceberg, ma il segnale che ricevo è troppo forte per il ghiaccio normale.»
«Sta bene», sospirò Neth. «Andiamo a dare un'occhiata.» Guardò Rapp e aggrottò la fronte. «Su, fai il bravo e riportaci sulla rotta tre-quattro-sette.»
Rapp annuì e agì sui comandi per effettuare il cambiamento di rotta. L'aereo, accompagnato dal rombo regolare dei quattro motori Pratt-Whitney, virò verso un nuovo orizzonte.
Neth prese un binocolo e lo puntò sulla distesa infinita di acqua azzurra. Lo mise a fuoco e, per quanto era possibile con le vibrazioni dell'aereo, cercò di tenerlo saldo. E poi lo vide... un punto bianco inanimato, posato serenamente in un mare di zaffiro. A mano a mano che la distanza si riduceva, l'iceberg diventava più grande nelle lenti del binocolo. Neth riprese il microfono.
«Che ne pensi, Sloan?»
Il tenente Jonis Sloan, capo osservatore dei ghiacci a bordo dell'aereo, stava già studiando l'iceberg attraverso il portellone semiaperto dietro la cabina di pilotaggio.
«Sembra prodotto in serie.» La voce da robot di Sloan arrivò attraverso la cuffia. «Un iceberg tabulare con sommità a mesa. Secondo me è alto una sessantina di metri e probabilmente pesa un milione di tonnellate.»
«Prodotto in serie?» Neth sembrava quasi sorpreso. «Grazie, Sloan, per la tua descrizione così illuminante. Non vedo l'ora di poterlo visitare, un giorno o l'altro.» Si rivolse a Rapp. «A che quota siamo?»
Rapp teneva lo sguardo fisso davanti a sé. «A trecento metri. La stessa quota che abbiamo mantenuto per tutto il giorno... e anche ieri... e l'altro ieri...»
«Volevo solo controllare, grazie», l'interruppe Neth e aggiunse, con aria solenne: «Ah, Rapp, non saprai mai quanto mi sento sicuro della mia vecchiaia quando tu sei ai comandi!»
Inforcò un paio di occhialoni malconci, si preparò ad affrontare il torrente di aria gelida e aprì il finestrino laterale per vedere meglio. «Eccolo lì», annunciò, rivolgendo un cenno a Rapp. «Sorvolalo un paio di volte, e vedremo. Sempre ammesso che ci sia qualcosa da vedere.»
Dopo pochi secondi, Neth ebbe la sensazione che il suo viso si fosse trasformato in un cuscinetto puntaspilli. L'aria gelida gli artigliò la pelle sino a farle perdere la sensibilità. Neth strinse i denti e non distolse lo sguardo dall'iceberg.
L'enorme massa di ghiaccio sembrava un clipper spettrale a vele spiegate, mentre navigava con eleganza sotto i finestrini del Boeing. Rapp ridusse la potenza dei motori, spostò leggermente i comandi e l'aereo descrisse un'ampia virata verso sinistra. Poi, senza guardare il virosbandometro, calcolò l'angolo sbirciando, al di sopra della spalla di Neth, la massa splendente di ghiaccio. Volò in cerchio per tre volte in attesa che Neth gli desse il segnale di allontanarsi. Alla fine Neth tirò indietro la testa e prese il microfono.
«Hadley! L'iceberg è nudo come il sederino di un neonato.»
«Laggiù c'è qualcosa, tenente!» protestò Hadley. «Ho un blip chiarissimo sul mio...»
«Credo di aver individuato un oggetto scuro, comandante», s'intromise Sloan. «Laggiù, vicino alla linea di galleggiamento, sul lato ovest.»
Neth si rivolse a Rapp: «Scendiamo a settanta metri».
Rapp eseguì la manovra in pochi minuti. Altri minuti passarono mentre continuava a volare in cerchio intorno all'iceberg e manteneva la velocità dell'aereo appena al di sopra dello stallo.
«Più vicino», mormorò Neth. «Altri trenta metri.»
«Ma perché non ci atterriamo sopra, già che ci siamo?» sbottò Rapp. Se anche era preoccupato, non lo lasciava capire: anzi, aveva l'espressione di chi sta per addormentarsi. Solo le gocce di sudore sulla fronte tradivano una concentrazione totale sul compito rischioso che lo impegnava. Le lunghe onde azzurre sembravano così vicine da dargli la sensazione che avrebbe potuto toccarle semplicemente allungando il braccio. E, ad accrescere il nervosismo, adesso le pareti dell'iceberg torreggiavano al di sopra del Boeing e la loro sommità spariva completamente oltre le intelaiature dei finestrini della cabina di pilotaggio. Bastava un guizzo, pensò Rapp, una corrente capricciosa, e la punta dell'ala di sinistra avrebbe potuto toccare la cresta di un'onda, trasformando il grosso aereo in una girandola suicida.
Poi Neth scorse qualcosa... qualcosa di indistinto che pareva librarsi sul confine invisibile tra l'immaginazione e la realtà. A poco a poco si materializzò, divenne una cosa tangibile, una forma artificiale. Alla fine, dopo quella che a Rapp parve un'eternità, Neth ritrasse la testa, chiuse di nuovo il finestrino laterale e premette l'interruttore del microfono.
«Sloan? L'hai visto?» Le parole erano soffocate, come se Neth parlasse attraverso un cuscino. Sulle prime, Rapp pensò che la mascella e le labbra di Neth fossero intirizzite dal freddo; ma, quando gli lanciò una rapida occhiata, fu sorpreso nel vedere la faccia del comandante paralizzata non dal gelo, bensì da un'espressione mista di meraviglia e di timore.
«L'ho visto», disse la voce di Sloan, che arrivava attraverso l'intercom con un'eco meccanica. «Ma non credevo che fosse possibile.»
«Non lo credevo neppure io», rispose Neth. «Ma c'è... C'è una stramaledetta nave fantasma imprigionata nel ghiaccio.» Si girò verso Rapp e scosse la testa come se non credesse alle proprie parole. «Non sono riuscito a vedere i particolari, ma solo il contorno confuso della prua, o forse della poppa... è impossibile dirlo con certezza.»
Si tolse gli occhialoni e alzò in aria il pollice della mano destra. Con un sospiro di sollievo, Rapp pilotò l'aereo più lontano e mise un margine di sicurezza fra il ventre del Boeing e il freddo Atlantico.
«Mi scusi, tenente», gracchiò la voce di Hadley attraverso la cuffia. Stava curvo sul radar e studiava meticolosamente un piccolo blip bianco quasi al centro dello schermo. «Per quel che può valere, la lunghezza della cosa sepolta nell'iceberg è all'inarca di trentotto metri.»
«Probabilmente è il relitto di un peschereccio.» Neth si massaggiò con energia le guance e rabbrividì per il dolore quando la circolazione cominciò a riattivarsi.
«Devo mettermi in contatto con il comando distrettuale di New York e chiedere l'invio di una squadra di soccorso?» chiese sbrigativamente Rapp.
Neth scosse la testa. «Non c'è bisogno di far accorrere una nave soccorso. È evidente che non ci sono superstiti. Faremo un rapporto quando saremo rientrati a Terranova.»
Vi fu un breve silenzio. Poi arrivò la voce di Sloan.
«Fai un passaggio sopra l'iceberg, comandante. Lancerò un contrassegno colorante, in modo che l'identificazione sia più rapida.»
«Giusto, Sloan. Effettua il lancio al mio segnale.» Neth si girò di nuovo verso Rapp. «Portaci sopra la parte più alta dell'iceberg, a cento metri.»
Il Boeing, con i quattro motori che funzionavano ancora a potenza ridotta, passò sopra il maestoso iceberg come un colossale rettile volante del Mesozoico alla ricerca del nido. Sloan, che era tornato accanto al portellone di carico, lanciò lana tanica da quattro litri di colorante rosso. La tanica rimpicciolì, rimpicciolì, diventò un puntolino minuscolo e infine colpì la superficie levigata dell'iceberg. Sloan si voltò e scorse una vivacissima striscia vermiglia che si allargava lentamente sulla montagna di ghiaccio da un milione di tonnellate.
«Preso in pieno!» Neth aveva un tono quasi gioviale. «La squadra ricerche non faticherà a vederlo.» Poi s'incupì e abbassò lo sguardo sul punto in cui la nave sconosciuta era sepolta nel ghiaccio. «Poveri diavoli. Chissà se scopriremo mai che cosa gli è successo.»
Gli occhi di Rapp divennero assorti. «Certo che non potevano aspettarsi una lapide più grande.»
«Ma è solo temporanea. Due settimane dopo che l'iceberg sarà finito nella Corrente del Golfo non resterà ghiaccio sufficiente per tenere in fresco una confezione di sei birre.»
Nella cabina scese un silenzio che sembrava intensificato dal rombo incessante dei motori. Per lunghi istanti nessuno dei due uomini parlò: erano smarriti nei loro pensieri. Potevano solo guardare la minacciosa guglia bianca che sorgeva dal mare e interrogarsi sull'enigma racchiuso in quella coltre di ghiaccio.
Alla fine, Neth si abbandonò sul seggiolino e ritrovò l'abituale imperturbabilità. «Guardiamarina, a meno che tu non abbia il desiderio irresistibile di far immergere questa specie di autobus nell'acqua a quattro gradi, ti consiglio di riportarci a casa prima che i serbatoi restino a secco.» E sogghignò minacciosamente. «Per favore, niente interruzioni.»
Rapp gli lanciò un'occhiata tagliente, poi alzò le spalle e riportò il Boeing sulla rotta per Terranova.
L'aereo della Guardia Costiera sparì e il rombo dei suoi motori si disperse nella fredda aria salmastra. Il grande iceberg continuò a restare avvolto nel silenzio di morte che lo circondava da quando si era staccato da un ghiacciaio, quasi un anno prima, ed era stato spinto in mare dalla costa occidentale della Groenlandia.
Poi, all'improvviso, vi fu un movimento lieve ma percettibile sul ghiaccio, poco al di sopra della linea di galleggiamento. Due sagome indistinte si trasformarono lentamente in due uomini che si alzarono in piedi e guardarono nella direzione dell'aereo. Da più di venti passi sarebbero stati invisibili, perché indossavano tute bianche che si mimetizzavano alla perfezione sullo sfondo incolore.
Rimasero immobili a lungo. Ascoltavano, pazienti. Quando ebbero la certezza che l'aereo non sarebbe ritornato, uno dei due s'inginocchiò e spazzò via il ghiaccio rivelando una piccola ricetrasmittente. Estese l'antenna telescopica alta tre metri, regolò la frequenza e incominciò a girare la manovella. Non dovette insistere a lungo. Qualcuno, chissà dove, era in attesa sulla stessa frequenza, e la risposta arrivò quasi immediatamente.
1.
Il capitano di corvetta Lee Koski strinse ancora di più i denti sulla cannuccia della pipa, affondò i pugni nella giacca a vento foderata di pelliccia e rabbrividì nel freddo intenso. Da due mesi aveva compiuto quarantun anni, diciotto dei quali li aveva trascorsi in servizio presso la Guardia Costiera degli Stati Uniti. Era molto basso, e l'abbigliamento ingombrante contribuiva a trasmettere l'impressione che fosse quasi più largo che alto. Gli occhi celesti sotto i folti capelli color grano brillavano di un'intensità che sembrava non affievolirsi mai, quale che fosse il suo umore. Aveva i modi sicuri del perfezionista, una qualità che lo aiutava non poco nella sua attività quale comandante del nuovissimo supercutter della Guardia Costiera, il Catawaba. Koski stava sul ponte come un gallo da combattimento, a gambe larghe, e non si prese il disturbo di voltarsi per parlare al colosso che stava dietro di lui.
«Anche con il radar, faranno una fatica d'inferno a trovarci con questo tempaccio.» Il tono era tagliente e penetrante come l'aria fredda dell'Atlantico. «La visibilità non può essere superiore a un miglio.»
Il tenente Amos Dover, comandante in seconda del Catawaba, lanciò un mozzicone di sigaretta in aria e osservò con interesse critico mentre il fumante cilindretto bianco veniva afferrato dal vento, trascinato attraverso il ponte e sopra il mare.
«Comunque non farebbe nessuna differenza», mormorò. Le sue labbra erano bluastre a causa del vento gelido. «Con questo beccheggio, il pilota dell'elicottero dovrebbe essere completamente stupido oppure ubriaco fradicio o tutti e due per appuntare proprio qui.» Indicò con la testa la piattaforma del Catawaba, già bagnata dagli spruzzi.
«Ad alcuni non frega niente di morire», commentò Koski in tono severo.
«Non potranno dire che non li avevamo avvertiti.» Dover aveva l'aspetto di un grosso orso e la sua voce sembrava un ringhio che proveniva dal profondo dello stomaco. «Mi sono messo in contatto con l'elicottero non appena ha lasciato St. John's, l'ho informato che le condizioni del mare erano in peggioramento costante e ho sconsigliato energicamente un rendez-vous. E l'unica risposta del pilota è stato un educato 'grazie'.»
Cominciava a piovigginare, e il vento da venticinque nodi gettava l'acqua sulla nave in scrosci tali che molto presto tutti gli uomini di servizio in coperta corsero a indossare le incerate. Fortunatamente per il Catawaba e per il suo equipaggio, la temperatura dell'aria era ancora di poco superiore a quattro gradi centigradi. Se fosse scesa allo zero, la nave si sarebbe coperta di una coltre di ghiaccio.
Koski e Dover avevano appena indossato gli impermeabili quando l'altoparlante fece udire un crepitio meccanico. «Comandante, abbiamo inquadrato l'elicottero sul radar e lo stiamo guidando nell'avvicinamento.»
Koski afferrò il microfono della ricetrasmittente e diede il ricevuto. Poi si rivolse a Dover. «Ho paura che si stia preparando un complotto», rifletté.
«Si sta chiedendo il motivo di tutta questa urgenza di prendere a bordo nuovi passeggeri?»
«E lei non se lo chiede?»
«Per la verità, sì. E mi domando anche perché gli ordini di restare in attesa e di ricevere un elicottero civile siano arrivati direttamente dal quartier generale di Washington anziché dal nostro comando distrettuale.»
«È una grave mancanza da parte del comandante non dirci che cosa vuole questa gente», borbottò Koski. «Be', comunque una cosa è certa: non stanno andando in crociera a Tahiti...»
S'irrigidì di colpo e tese l'orecchio in direzione del suono inconfondibile delle pale di un elicottero. Per una manciata di secondi l'apparecchio restò invisibile tra le nubi. Poi, nello stesso istante, i due uomini lo avvistarono. Arrivava da ovest, attraverso la pioggia leggera, e puntava verso la nave. Koski lo riconobbe immediatamente; era una versione civile del biposto Ulysses Q-55, capace di volare a una velocità di circa quattrocento chilometri all'ora.
«Se ci prova, è un pazzo», disse Dover in tono brusco.
Koski non fece commenti. Prese la ricetrasmittente e ordinò: «Comunicate al pilota di non tentare l'appontaggio mentre stiamo affrontando onde alte tre metri. Ditegli che non mi riterrò responsabile delle sue azioni sconsiderate!»
Attese per qualche secondo e tenne lo sguardo fisso sull'elicottero. «Dunque?»
L'altoparlante crepitò. «Il pilota ringrazia sentitamente per il suo interesse, comandante, e la prega di tener pronto qualche uomo per bloccare l'apparecchio non appena toccherà il ponte.»
«È un bastardo beneducato», ringhiò Dover. «Questo devo riconoscerlo.»
Koski sporse il mento di un altro centimetro e strinse convulsamente fra i denti il cannello della pipa. «Beneducato un accidente! Con ogni probabilità quell'idiota sta per sfasciare un pezzo della mia nave.» Poi alzò le spalle, rassegnato, prese un megafono e gridò: «Thorp! Dica ai suoi uomini di tenersi pronti a bloccare l'elicottero nel momento in cui apponterà. Ma, per amor di Dio, li faccia stare al sicuro fino a che non si sarà posato... E tenga a disposizione una squadra di pronto intervento».
«In questo momento», commentò Dover a voce bassa, «non vorrei essere al posto di quelli lassù neppure per i favori di tutte le dive di Hollywood.»
Il Catawaba, calcolò Koski, non poteva puntare direttamente controvento perché la turbolenza causata dalla sovrastruttura avrebbe portato l'apparecchio incontro a una distruzione certa. D'altra parte, se la nave si fosse posta di fianco rispetto al movimento del mare, il rollio sarebbe stato eccessivo e l'elicottero non sarebbe riuscito a posarsi. Gli anni di esperienza e la conoscenza delle capacità di manovra del Catawaba rendevano inevitabile la sua decisione.
«Li riceveremo con il vento e il mare di prua. Riducete la velocità ed effettuate il necessario cambiamento di rotta.»
Dover annuì e scomparve nella timoniera. Qualche attimo più tardi uscì di nuovo. «Di prua secondo gli ordini e per quanto lo consente il mare.»
In preda all'apprensione, Koski e Dover seguirono con gli occhi l'elicottero giallo che avanzava nella nebbia, procedeva controvento e si avvicinava alla poppa del Catawaba a un angolo di trenta gradi sopra la scia della nave. Sebbene il vento investisse brutalmente l'Ulysses, il pilota riusciva, bene o male, a tenerlo in assetto orizzontale. Quando arrivò a una distanza di un centinaio di metri, cominciò a ridurre la velocità, fino a che non si fermò a mezz'aria e restò in volo librato come un colibrì al di sopra della piattaforma di atterraggio. A Koski sembrò che passasse un'eternità mentre l'elicottero manteneva la quota e il pilota calcolava il punto più alto della centina a ventaglio del cutter ogni volta che si sollevava sulla cresta di un'onda. Poi all'improvviso, quando la piattaforma raggiunse l'apogeo, il pilota ridusse la potenza e l'Ulysses scese verticalmente sul Catawaba un attimo prima che la poppa si abbassasse nell'incavo dell'ondata successiva.
I pattini avevano appena toccato, quando cinque uomini del cutter attraversarono correndo il ponte inclinato e cominciarono a lottare contro le raffiche di vento per assicurare l'elicottero prima che venisse sbalzato in acqua. Il rombo del motore si spense, le pale dei rotori si arrestarono e un portello si aprì sul fianco della carlinga. Poi due uomini, con le teste chine per ripararsi dalla pioggia, balzarono sulla piattaforma.
«Che figlio di un cane», mormorò meravigliato Dover. «E con quale facilità c'è riuscito.»
Koski si oscurò. «Devono avere credenziali di prim'ordine... e la loro autorizzazione viene dal quartier generale della Guardia Costiera di Washington.»
Dover sorrise. «Forse sono membri del Congresso venuti per un'ispezione.»
«Improbabile», commentò laconico Koski.
«Devo scortarli nella sua cabina?»
Koski scrollò la testa. «No, presenti loro i miei complimenti e li accompagni al quadrato ufficiali.» Poi sorrise maliziosamente. «Al momento, l'unica cosa che m'interessa è un caffè caldo.»
Due minuti più tardi, Koski era seduto a un tavolo nel quadrato ufficiali e si scaldava le mani stringendole intorno a una tazza di caffè fumante. L'aveva bevuta a metà quando la porta si aprì ed entrò Dover, seguito da un personaggio rotondetto con un paio di grandi occhiali con la montatura a giorno e la testa quasi calva frangiata da lunghi capelli bianchi e spettinati. Anche se, a prima vista, Koski ebbe l'impressione di trovarsi di fronte al classico scienziato pazzo, la faccia era tonda e bonaria e gli occhi castani erano sorridenti. Lo sconosciuto scorse il comandante, si avvicinò al tavolo e gli tese la mano.
«Immagino che lei sia il comandante Koski. Sono Hunnewell... il dottor Bill Hunnewell. Mi dispiace di averle causato tanto disturbo.»
Koski si alzò e gli strinse la mano. «Benvenuto a bordo, dottore. Si accomodi, prego, e beva un caffè con me.»
«Caffè? Non lo sopporto», rispose mestamente Hunnewell. «Ma venderei l'anima per una tazza di cioccolata calda.»
«Ce l'abbiamo», confermò Koski. S'inclinò all'indietro sulla sedia e chiamò: «Brady!»
Un inserviente in giacca bianca arrivò dalla cambusa. Era alto e magro e aveva la tipica andatura del texano. «Sissignore, comandante. Desidera?»
«Una tazza di cioccolata per il nostro ospite e altri due caffè per il tenente Dover e per...» Koski s'interruppe, guardando alle spalle di Dover con aria interrogativa. «Dov'è il pilota del dottor Hunnewell?»
«Arriverà fra un minuto.» Dover aveva un'aria impacciata, come se cercasse di trasmettere un avvertimento a Koski. «Ha voluto accertarsi che l'elicottero fosse ben ormeggiato.»
Koski fissò Dover con aria interrogativa, poi lasciò perdere. «È tutto, Brady. E porta la caffettiera. Ci serviremo da soli, se ne vorremo ancora.»
Brady annuì e tornò in cambusa.
«È un vero lusso avere di nuovo quattro pareti solide intorno a me», esclamò Hunnewell. «Stare a bordo di quell'aquilone vibrante senza niente altro fra me e la furia degli elementi che una bolla di plastica è sufficiente per far venire i capelli grigi». Si passò la mano fra le poche ciocche bianche che ancora gli rimanevano e sorrise.
Koski non rispose al sorriso. Posò la tazza e disse: «Non credo che si renda conto, dottor Hunnewell, di quanto è andato vicino a perdere il resto dei capelli e anche se stesso. È stato assai avventato da parte del suo pilota prendere in considerazione l'idea di affrontare un volo in queste condizioni meteorologiche».
«Posso assicurarle, comandante, che il viaggio era indispensabile.» Hunnewell parlava con lo stesso tono benevolo che avrebbe usato per tenere una lezione a uno studentello. «Lei, il suo equipaggio e la sua nave hanno una funzione vitale da svolgere, e il tempo è un fattore critico. Non possiamo permetterci di perdere un solo minuto.» Prese dal taschino un foglietto e lo porse a Koski. «Mentre le spiego il motivo della nostra presenza qui, devo chiederle di fissare immediatamente una nuova rotta per questa posizione.»
Koski prese il foglio senza leggerlo. «Mi perdoni, dottor Hunnewell, tuttavia non posso accogliere la sua richiesta. L'unico ordine che ho ricevuto dal quartier generale è stato quello di prendere a bordo due passeggeri. Non si è affatto parlato di autorizzarla a comandare la mia nave.»
«Lei non ha capito.»
Koski fissò Hunnewell con uno sguardo penetrante al di sopra della tazza. «Questo, dottore, è dir poco. Con quale autorità è qui? E perché è qui?»
«Si tranquillizzi, comandante. Non sono un agente nemico venuto a sabotare la sua nave. Sono libero docente in oceanografia e attualmente lavoro per la National Underwater & Marine Agency. Conosce la NUMA, vero?»
«Non si offenda», rispose con calma Koski. «Ma c'è ancora un interrogativo rimasto senza risposta.»
«Forse posso contribuire a chiarire la situazione.» La voce nuova era bassa ma ferma, e aveva un'innegabile autorità.
Koski s'irrigidì e si voltò verso l'uomo che stava appoggiato con noncuranza all'intelaiatura della porta. La faccia abbronzata, i lineamenti duri e quasi crudeli, gli occhi verdi e penetranti rendevano chiaro all'istante che quell'uomo non era disposto a farsi pestare i piedi. Indossava l'uniforme di volo dell'Aeronautica militare, e, con aria intenta e distaccata a un tempo, stava rivolgendo a Koski un sorriso condiscendente.
«Ah, eccola, finalmente», sospirò Hunnewell. «Comandante Koski, posso presentarle il maggiore Dirk Pitt, direttore dei Progetti Speciali della NUMA?»
«Pitt?» ripeté Koski. Lanciò un'occhiata a Dover e inarcò un sopracciglio. Dover si limitò a scrollare le spalle, a disagio. «Per caso, è lo stesso Pitt che l'anno scorso ha stroncato il contrabbando sottomarino in Grecia?»
«C'era almeno una decina di altre persone alle quali spetta buona parte del merito», si schernì Pitt.
«Un ufficiale dell'Aeronautica militare che lavora ai programmi oceanografici», borbottò Dover. «Non le sembra di essere un po' fuori del suo elemento, maggiore?»
Pitt sorrise e intorno ai suoi occhi si formò un ventaglio di piccole rughe. «Non più di tutti gli uomini della Marina che sono andati sulla Luna.»
«Questo è vero», ammise Koski.
Brady tornò, servì i caffè e la cioccolata, uscì e ricomparve per posare un vassoio di sandwich prima di sparire definitivamente.
Koski cominciava a sentirsi davvero a disagio. Uno scienziato che apparteneva a un importante ente governativo: brutta storia. Un ufficiale di un'altra forza armata, famoso per le sue imprese pericolose: una storia ancora più spinosa. Ma la combinazione di quei due fattori, che adesso gli stavano davanti e gli dicevano che cosa fare e dove andare: un vero disastro.
«Come stavo dicendo, comandante», riprese Hunnewell in tono spazientito, «dobbiamo raggiungere al più presto possibile la posizione che le ho dato.»
«No», rispose brusco Koski. «Mi dispiace se il mio atteggiamento le sembra intransigente, ma si renderà conto che ho il pieno diritto di respingere le sue richieste. Quale comandante di questa nave, gli unici ordini che sono tenuto a rispettare sono quelli del comando distrettuale della Guardia Costiera di New York o del quartier generale di Washington.» S'interruppe per versarsi un'altra tazza di caffè. «E gli ordini che ho ricevuto spiegavano che dovevo prendere a bordo due passeggeri, niente di più. Ho obbedito, e adesso proseguirò la normale rotta di pattugliamento.»
Pitt scrutò la faccia granitica di Koski come uno specialista di metallurgia studierebbe una barra di acciaio in cerca di un difetto.
All'improvviso si raddrizzò, si diresse alla porta della cambusa e sbirciò all'interno. Brady stava versando un sacco di patate in un pentolone. Sempre con cautela, Pitt si voltò a esaminare il corridoio davanti alla mensa. Si accorse che il suo giochetto funzionava: mentre osservavano i suoi movimenti circospetti, Koski e Dover si scambiavano occhiate confuse. Poi, apparentemente convinto che nessuno stesse origliando, tornò al tavolo, si sedette, si chinò, verso i due ufficiali della Guardia Costiera e sussurrò: «Bene, signori, ecco di che cosa si tratta. I dati forniti dal dottor Hunnewell localizzano un iceberg qualificato come molto importante».
Koski arrossì leggermente, ma riuscì a mantenere un'espressione impassibile. «E, se posso chiederlo senza fare la figura dello stupido, maggiore, quale tipo di iceberg sarebbe 'qualificato come molto importante'?»
Pitt si accese una sigaretta e parve riflettere. «Uno in cui c'è il relitto di una nave sepolta sotto il ghiaccio. Un peschereccio russo, per la precisione, traboccante di tutti gli apparecchi più moderni e sofisticati di rilevamento elettronico che la scienza sovietica ha prodotto finora. Per non parlare dei codici e dei dati per l'intero programma di sorveglianza dell'emisfero occidentale.»
Koski non batté ciglio. Non staccò neppure gli occhi da Pitt. Prese dall'interno della giacca una borsa di tabacco e cominciò a caricare la pipa.
«Sei mesi fa», continuò Pitt, «un peschereccio russo, il Novgorod, è transitato a pochi chilometri dalla costa della Groenlandia e ha cominciato a osservare le attività della base missilistica dell'Aeronautica militare degli Stati Uniti sull'isola di Disko. Le fotografie aeree hanno mostrato che il Novgorod aveva a bordo antenne riceventi di tutti i tipi conosciuti, oltre ad altre, sconosciute. I russi sono stati prudenti; il peschereccio e il suo equipaggio - formato da trentacinque specialisti, fra uomini e donne - non sono mai entrati nelle acque territoriali della Groenlandia. Il peschereccio è addirittura diventato una sorta di amico per i nostri piloti, che, con il brutto tempo, lo usavano come punto di riferimento. Quasi tutte le navi-spia russe ricevono il cambio ogni trenta giorni, ma questa è rimasta in posizione per tre mesi filati. L'Intelligence Service della Marina era piuttosto sconcertato. Poi, in una mattina di tempesta, il Novgorod è sparito. E sono passate quasi tre settimane prima che andasse a rimpiazzarlo un'altra nave. Lo scarto di tempo ha aggravato il mistero... in precedenza i russi non erano mai venuti meno all'abitudine di richiamare una nave-spia prima dell'arrivo di un rimpiazzo.»
Pitt s'interruppe e scosse la sigaretta in un portacenere. «Ci sono due sole rotte che il Novgorod potrebbe aver seguito per tornare a casa. Una lo avrebbe portato a Leningrado passando per il Baltico, l'altra a Murmansk attraverso il mare di Barents. Gli inglesi e i norvegesi ci hanno assicurato che il Novgorod non ha seguito né l'una né l'altra. Per dirla in poche parole, fra la Groenlandia e la costa europea la nave è sparita con tutto l'equipaggio.»
Koski posò la tazza e la fissò pensosamente. «Mi sembra un po' strano che la Guardia Costiera non ne sia mai stata informata. So per certo che non ci è stata comunicata la scomparsa di un peschereccio russo.»
«È sembrato piuttosto strano anche a Washington. Perché mai i russi tengono segreta la perdita del Novgorod? L'unica risposta logica è questa: non vogliono che una nazione occidentale scopra la benché minima traccia della loro nave-spia più avanzata.»
Le labbra di Koski si atteggiarono in un sorriso sarcastico. «Vuol farmi credere che c'è una nave-spia sovietica imprigionata in un iceberg? Oh, andiamo, maggiore, ho smesso di credere alle favole quando ho scoperto che oltre l'arcobaleno non c'era né il mago di Oz né una pentola d'oro.»
Pitt sorrise con la stessa aria ironica. «Comunque è stato uno dei vostri aerei in servizio di pattugliamento a scoprire una nave corrispondente al profilo di un peschereccio e imprigionata in un iceberg a 47° 36' nord, 43° 17' ovest.»
«È vero», ammise seccamente Koski. «Il Catawaba è la nave soccorso più vicina alla posizione. Ma perché l'ordine di andare a controllare non mi è arrivato direttamente dal comando distrettuale di New York?»
«Per motivi di sicurezza», rispose Pitt. «L'ultima cosa che volevano quelli di Washington era un annuncio pubblico trasmesso via radio. Per fortuna il pilota dell'aereo che ha avvistato l'iceberg ha fatto un rapporto sulla posizione soltanto dopo essere atterrato. L'idea, naturalmente, è raggiungere il peschereccio prima dei russi. Immagino che si renderà conto, comandante, dell'importanza per il nostro governo di ogni eventuale informazione segreta sulla flotta di navi-spia sovietiche.»
«Sarebbe molto più pratico piazzare sull'iceberg esperti in elettronica e in comunicazioni.» Il leggero cambiamento nel tono di Koski non era ancora il segno di una credito illimitato, ma comunque c'era. «Se posso dirlo, non capisco bene che cosa ci possano fare un pilota e un oceanografo...»
Pitt gli rivolse un'occhiata penetrante, poi guardò Dover e di nuovo Koski. «Una facciata», spiegò con fare pacato. «Con uno scopo preciso. I russi non sono certo dei dilettanti in fatto di operazioni di spionaggio. Diventerebbero molto sospettosi se vedessero aerei militari gironzolare in un tratto di mare aperto dove le navi passano molto di rado. D'altra parte, è noto che gli aerei della NUMA svolgono indagini scientifiche nelle acque più desolate.»
«E le vostre qualifiche?»
«Io sono in grado di pilotare un elicottero nelle condizioni meteorologiche dell'Artico», rispose Pitt. «E senza il minimo dubbio il dottor Hunnewell è il massimo esperto del mondo in fatto di formazioni di ghiaccio.»
«Capisco», mormorò Koski. «Il dottor Hunnewell studierà l'iceberg prima che quelli dell'Intelligence piombino sulla scena.»
«Esattamente», ammise Hunnewell. «Se sotto il ghiaccio c'è davvero il Novgorod, spetterà a noi determinare il modo più pratico per raggiungere lo scafo. Lei saprà, comandante, che gli iceberg sono entità infide. È come tagliare un diamante: basta un minimo errore di calcolo perché il valore precipiti. Troppo esplosivo nel posto sbagliato, e il ghiaccio può incrinarsi e spaccarsi. Oppure lo scioglimento subitaneo ed eccessivo può causare uno spostamento del centro di gravità e far capovolgere l'iceberg. Quindi, come vede, è indispensabile che la massa di ghiaccio venga esaminata accuratamente, prima che sia possibile penetrare nel Novgorod con un minimo di sicurezza.»
Koski si appoggiò alla spalliera e si rilassò. Per un momento guardò Pitt negli occhi, poi sorrise. «Tenente Dover!»
«Signore?»
«Accontenti questi signori e tracci una rotta per 47° 36' nord, 43° 17' ovest. E comunichi al comando distrettuale di New York la nostra intenzione di spostarci.» Fissò Pitt per vedere se cambiava espressione, ma non successe niente.
«Senza offesa», disse tranquillamente Pitt, «le consiglio di lasciar perdere la comunicazione al comando distrettuale.»
«Non sono sospettoso, maggiore», replicò Koski in tono di scusa. «Ma non ho l'abitudine di scorrazzare per l'Atlantico settentrionale senza far sapere alla Guardia Costiera dove va la sua nave.»
«D'accordo, ma le sarei grato se non segnalasse la nostra destinazione.» Pitt spense la sigaretta. «Inoltre, la prego di avvertire la sede della NUMA a Washington che il dottor Hunnewell e io siamo arrivati sani e salvi a bordo del Catawaba e proseguiremo il volo per Reykjavik non appena le condizioni meteorologiche saranno migliorate.»
Koski inarcò un sopracciglio. «Reykjavik? In Islanda?»
«La nostra destinazione finale», spiegò Pitt.
Koski fece per dire qualcosa, poi cambiò idea e alzò le spalle. «Sarà meglio che provveda ai vostri alloggi, signori.» Si rivolse a Dover. «Il dottor Hunnewell potrà sistemarsi nella cabina con il nostro ufficiale di macchina, e il maggiore Pitt starà con lei, tenente.»
Pitt sorrise a Dover, quindi si voltò verso Koski. «Per tenermi d'occhio?»
«È stato lei a dirlo, non io», ribatté Koski, un po' sorpreso nel vedere l'espressione infastidita sulla faccia di Pitt.
Quattro ore più tardi, Pitt stava sonnecchiando sulla branda sistemata nel bugigattolo che era la cabina di Dover. Era stanco e indolenzito, ma nella mente gli turbinavano troppi pensieri per permettergli di entrare nel paradiso del sonno profondo. Una settimana prima, a quella stessa ora, stava in compagnia di una procace rossa sulla terrazza del Newporter Inn, e contemplava il pittoresco lungomare di Newport Beach, in California. Ricordava con piacere che aveva accarezzato con una mano la ragazza mentre con l'altra reggeva un bicchiere di scotch on the rocks e seguiva con lo sguardo le sagome degli yacht che attraversavano il porto sotto il chiaro di luna. Adesso era solo su una scomodissima branda, a bordo di un cutter della Guardia Costiera sballottato dalle onde nel gelido Atlantico settentrionale. Devo essere un masochista fatto e finito, pensò, per offrirmi volontario per tutti i progetti più folli escogitati dall'ammiraglio Sandecker. Poi si corresse: no, l'ammiraglio James Sandecker, capo della NUMA, avrebbe rifiutato la definizione di «progetto folle»... «fregatura» sarebbe stato più nel suo stile.
«Mi dispiace moltissimo strapparla al sole della California, ma ci hanno scaricato addosso questa fregatura.» Sandecker, un ometto dai capelli rossi e dalla faccia grifagna, agitò nell'aria un sigaro lungo quasi venti centimetri. «Dovremmo occuparci di ricerche scientifiche sottomarine. Perché deve toccare proprio a noi e non alla Marina, mi chiedo? La Guardia Costiera non è in grado di sbrigare da sola i suoi problemi?» Scosse irritato la testa e tirò una boccata dal sigaro. «Comunque, l'hanno scaricato su di noi.»
Pitt finì di leggere e posò sulla scrivania dell'ammiraglio il fascicolo giallo con la dicitura RISERVATO. «Non credevo possibile che una nave restasse imprigionata nel cuore di un iceberg.»
«È assai improbabile, ma il dottor Hunnewell mi ha assicurato che è possibile.»
«Potrebbe essere difficile trovare l'iceberg giusto. Sono passati già quattro giorni dall'avvistamento della Guardia Costiera. Quel cubetto di ghiaccio ipersviluppato potrebbe essere ormai giunto a metà strada dalle Azzorre.»
«Il dottor Hunnewell ha calcolato la corrente e la deriva e il risultato è un'area approssimativa di cinquanta chilometri per cinquanta. Se la visibilità è buona, non dovrebbe essere difficile scorgere l'iceberg: la Guardia Costiera l'ha contrassegnato con la vernice rossa.»
«Avvistarlo è una cosa», commentò Pitt, «atterrarci sopra con un elicottero è tutt'altra faccenda. Non sarebbe più comodo e meno pericoloso arrivare con...»
«No!» l'interruppe Sandecker. «Niente navi. Se quel coso sotto il ghiaccio è importante come credo, voglio che nessuno, tranne Hunnewell e lei, si avvicini a meno di ottanta chilometri.»
«Forse le suonerà strano, ammiraglio, ma non ho mai atterrato con un elicottero su un iceberg.»
«È possibile che nessuno l'abbia mai fatto. Perciò l'ho voluta come direttore dei Progetti Speciali.» Sandecker sorrise maliziosamente. «Lei ha la fastidiosa abitudine, diciamo così, di portare a termine con successo le imprese impossibili.»
«E questa volta», chiese Pitt in tono insinuante, «ho l'occasione di offrirmi volontario?»
«Non accetterei altre candidature.»
Pitt alzò le spalle, rassegnato. «Non so perché gliele do sempre vinte con tanta facilità, ammiraglio. Comincio a pensare che mi consideri un allocco di prima classe.»
Un gran sorriso spuntò sulla faccia di Sandecker. «È stato lei a dirlo, non io.»
Con uno scatto metallico, la porta della cabina si spalancò. Pitt aprì pigramente un occhio e vide entrare il dottor Hunnewell che, massiccio com'era, dovette fare una manovra da funambolo per passare tra la branda di Pitt e l'armadietto di Dover prima di raggiungere una sedia accanto allo scrittoio. Sospirò all'unisono con il cigolio di protesta della sedia e s'incastrò fra i braccioli.
«In nome di Dio, come fa un colosso come Dover a sedere qui sopra?» chiese in tono incredulo.
«È in ritardo.» Pitt sbadigliò. «L'aspettavo qualche ora fa.»
«Non potevo sgattaiolare intorno agli angoli o scivolare nell'impianto di ventilazione come se stessi andando a un convegno di spie. Ho dovuto aspettare un pretesto per venire a parlarle.»
«Un pretesto?»
«Sicuro. L'invito del comandante Koski. La cena è servita.»
«Perché tanti sotterfugi?» chiese Pitt con un sorriso maligno. «Non abbiamo niente da nascondere.»
«Niente da nascondere! Se ne sta lì come una verginella innocente in attesa della prima comunione e mi racconta che non abbiamo niente da nascondere?» Hunnewell scosse la testa. «Finiremo tutti e due davanti al plotone d'esecuzione quando la Guardia Costiera scoprirà che ci siamo serviti di un inghippo per scipparle l'uso di uno dei suoi cutter nuovi.»
«Gli elicotteri hanno una brutta abitudine. Non volano se non hanno i serbatoi pieni di carburante anziché d'aria», osservò Pitt, sarcastico. «Avevamo bisogno di una base operativa e di un posto dove fare rifornimento. Il Catawaba era l'unica nave nell'area con tutto il necessario. E poi è stato lei a inviare il messaggio fasullo del comandante della Guardia Costiera, quindi nei pasticci è lei, non io.»
«E quella balla incredibile sul peschereccio russo scomparso? Non può negare che è un'invenzione sua, dalla prima all'ultima parola.»
Pitt intrecciò le mani dietro la testa e fissò il soffitto. «Secondo me, è piaciuta a tutti.»
«Devo riconoscerlo, è stata la truffa più abile che abbia mai visto in vita mia.»
«Lo so. Ci sono momenti in cui mi detesto.»
«Ha pensato a quel che potrà succedere quando il comandante Koski scoprirà la verità sul nostro piano?»
Pitt si alzò e si stiracchiò. «Sì. Facciamo semplicemente quello che farebbero due bravi truffatori americani.»
«E cioè?» chiese Hunnewell con aria dubbiosa.
Pitt sorrise. «Ci penseremo quando sarà il momento.»
2.
Fra tutti gli oceani, solo l'Atlantico è assolutamente imprevedibile. Il Pacifico, l'Indiano e persino l'Artico manifestano una serie d'idiosincrasie personali, tuttavia hanno una caratteristica in comune: è molto raro che ostacolino l'interpretazione del loro umore. L'Atlantico, invece, è diverso, soprattutto a nord del quindicesimo parallelo. Nel volgere di poche ore, la calma cristallina dell'acqua si può trasformare in un calderone ribollente e spumeggiante, agitato da un uragano forza dodici. Altre volte, però, tale indole capricciosa funziona a rovescio: i venti furiosi e le acque agitate che, durante la notte, fanno presagire una tempesta imminente, si trasformano, allo spuntar dell'alba, in un immoto specchio azzurro sotto il cielo sgombro. E proprio questo successe agli uomini del Catawaba: il nuovo sole li trovò a navigare senza problemi in un paesaggio tranquillo.
Pitt si svegliò lentamente. Quando aprì gli occhi il suo campo visivo venne occupato da un paio di shorts bianchi taglia extra large, adeguatamente riempiti da Dover che, chino su un piccolo lavabo, si stava pulendo i denti.
«Non sei mai stata così bella», commentò Pitt.
Dover si voltò di scatto con lo spazzolino appoggiato sui molari inferiori sinistri. «Eh?»
«Ho detto 'buongiorno'.»
Dover si limitò ad annuire, grugnì qualcosa d'incomprensibile con la bocca piena di dentifricio e si girò di nuovo verso il lavabo.
Pitt si sollevò a sedere e ascoltò. Il rombo dei motori era ancora presente e, a parte quello, l'unico rumore meccanico proveniva dall'afflusso d'aria tiepida attraverso l'impianto di ventilazione. Il movimento della nave sembrava agevole, quasi impercettibile.
«Non vorrei sembrarle maleducato, maggiore», disse Dover con un sorriso, «ma le consiglio di alzarsi. Fra un'ora e mezzo dovremmo arrivare più o meno all'area delle sue ricerche.»
Pitt buttò via le coperte e si alzò. «Prima le cose più importanti. Com'è classificato questo albergo in fatto di prime colazioni?»
«Due stelle sulla Guida Michelin», rispose allegramente Dover. «Offro io.»
Pitt si lavò in fretta, rinunciò a farsi la barba e indossò la tenuta da volo. Seguì Dover nel corridoio e si chiese com'era possibile che un uomo massiccio come il tenente riuscisse a girare per la nave senza sbattere la testa contro le paratie basse almeno dieci volte al giorno.
Avevano appena terminato una colazione che, secondo il calcolo di Pitt, sarebbe costata almeno cinque dollari in un ottimo albergo, quando un marinaio venne ad annunciare che il comandante Koski li attendeva in plancia. Dover lo seguì, mentre Pitt, distanziato di un paio di passi, reggeva una tazza di caffè. Trovarono il comandante e Hunnewell curvi su un tavolo a esaminare le carte nautiche.
Koski alzò la testa. La mascella sporgente non era più atteggiata come la prua di un rompighiaccio e gli intensi occhi celesti parevano quasi tranquilli.
«Buongiorno, maggiore. Si trova bene a bordo?»
«La sistemazione è un tantino scomoda, però il vitto è superbo.»
Koski sfoggiò un sorriso rude ma sincero. «Come le sembra la nostra piccola meraviglia elettronica?»
Pitt girò su se stesso per esaminare la centrale operativa. Sembrava uscita da un film di fantascienza. Dal pavimento al soffitto le quattro paratie d'acciaio erano occultate da una montagna di computer, di monitor televisivi e di strumenti. File interminabili di manopole e d'interruttori contrassegnati da sigle tecniche spiccavano in mezzo all'equipaggiamento, ed erano ornati da una tale varietà di spie colorate da far invidia all'insegna di un casinò di Las Vegas.
«Davvero impressionante», commentò Pitt con aria disinvolta, mentre beveva il caffè. «Schermi radar per la ricerca aerea e di superficie, il più moderno equipaggiamento Loran per le frequenze medie, alte e altissime, per non parlare del tracciatore computerizzato di rotta.» Pitt parlava con la noncuranza di un direttore delle pubbliche relazioni alle dipendenze del cantiere che aveva costruito il Catawaba. «La nave è dotata dei più efficienti sistemi oceanografici, per le comunicazioni e la navigazione, l'aerologia e il tracciamento delle rotte: sistemi che attualmente non hanno rivali sulle navi della stessa classe. In pratica, comandante, il Catawaba è stato creato per poter restare in mezzo all'oceano in tutte le condizioni atmosferiche come stazione meteorologica, per svolgere operazioni di soccorso, e per collaborare al lavoro di ricerca oceanografica. Potrei aggiungere che imbarca diciassette ufficiali e centosessanta uomini di equipaggio e che è costato fra i dodici e i tredici milioni di dollari. È stato costruito nei cantieri Northgate di Wilmington, nel Delaware.»
Koski, Dover e gli altri uomini presenti nella centrale operativa, a eccezione di Hunnewell che era rimasto a studiare le carte, sembravano paralizzati. Se Pitt fosse stato il primo marziano giunto sulla Terra non sarebbe stato oggetto di una simile incredula apprensione.
«Non sorprendetevi, signori», ridacchiò Pitt, soddisfatto. «Ho l'abitudine di prepararmi a dovere.»
«Capisco», ribatté cupamente Koski. Ma era evidente che non capiva affatto. «Forse può spiegarci perché ha studiato la lezione con tanta diligenza.»
Pitt alzò le spalle. «Come ho detto, è una mia abitudine.»
«Un'abitudine irritante, se posso dirlo.» Koski lo guardò, un po' a disagio. «Mi domando se lei è veramente ciò che dice di essere.»
«Il dottor Hunnewell e io lo siamo», rispose Pitt con fare rassicurante.
«Lo sapremo con certezza fra due minuti esatti, maggiore.» Il tono di Koski diventò cinico. «Anch'io amo prepararmi come si deve.»
«Non si fida di me...» ribatté Pitt in tono asciutto. «È un vero peccato. Ma le sue ansie sono superflue. Il dottor Hunnewell e io non abbiamo né l'intenzione né la possibilità di mettere in pericolo la sicurezza della nave e dell'equipaggio.»
«Non mi avete dato motivi per fidarmi.» Gli occhi di Koski erano freddi, la voce gelida. «Non avete portato ordini scritti. Non ho ricevuto messaggi radio sulla vostra autorità, niente di niente, se non una vaga comunicazione del comando della Guardia Costiera che annunciava il vostro arrivo. Potrei addirittura pensare che chiunque conoscesse il nostro codice di chiamata avrebbe potuto inviare la comunicazione.»
«Non c'è niente d'impossibile», ammise Pitt. Non poteva fare a meno di ammirare l'acume di Koski. Il comandante aveva fatto centro.
«Se sta giocando un gioco sporco, maggiore, non voglio essere coinvolto...»
Koski s'interruppe per afferrare un modulo portato da un marinaio. Studiò il foglio con attenzione, a lungo. Una strana espressione pensierosa gli passò sul viso. Poi aggrottò la fronte e tese il modulo a Pitt. «A quanto pare, lei è una fonte inesauribile di sorprese.»
Pitt non sembrava a disagio, ma lo era. Il momento della verità era giunto e, sebbene avesse avuto tempo per prepararsi, Pitt non era riuscito a escogitare una spiegazione di riserva che suonasse plausibile. Ormai non aveva scelta: doveva prendere il foglio che il comandante gli porgeva e non mostrarsi preoccupato. Il messaggio diceva:
«Circa la sua richiesta d'informazioni sul conto del dottor William Hunnewell e del maggiore Dirk Pitt, le credenziali del dottor Hunnewell sono di primissimo ordine. È direttore dell'Istituto oceanografico della California. Il maggiore Pitt è veramente direttore dei Progetti Speciali della NUMA, ed è anche figlio del senatore George Pitt. Sono impegnati in ricerche oceanografiche d'importanza vitale per gli interessi del governo, e dovrà essere fornita loro ogni assistenza, ripeto, ogni assistenza. La prego inoltre d'informare il maggiore Pitt che l'ammiraglio Sandecker gli consiglia di guardarsi dalle donne frigide». La firma era quella del comandante della Guardia Costiera.
«La difesa non ha altro da aggiungere», commentò Pitt, che assaporava ogni sillaba di quel comunicato. Quel vecchio volpone di Sandecker si era servito della sua influenza per convincere il comandante della Guardia Costiera a stare al gioco. Pitt trasse un respiro profondo e restituì il modulo a Koski.
«Deve essere bello avere amici altolocati», disse Koski con una sfumatura di fastidio nella voce.
«Qualche volta è utile.»
«Non posso fare a meno di dichiararmi soddisfatto», annunciò Koski. «E, se non si tratta di un segreto di Stato... l'ultima frase era in codice?»
«Non è un segreto», rispose Pitt. «È semplicemente il modo subdolo con cui l'ammiraglio Sandecker raccomanda e al dottor Hunnewell e a me di proseguire per l'Islanda dopo aver effettuato l'indagine sull'iceberg.»
Per un momento, Koski rimase immobile. Scosse lentamente la testa, sconcertato, e continuò a scuoterla fino a che Hunnewell non batté il pugno sul tavolo delle carte nautiche.
«Ecco qui, signori. L'ubicazione esatta della nostra nave fantasma... con qualche chilometro quadrato in più o in meno.» Era davvero un uomo straordinario. Se anche si era accorto della tensione di pochi minuti prima, non lo lasciava assolutamente capire. Piegò il foglio e lo ripose nella tasca della giacca a vento. «Maggiore Pitt, credo che sia meglio muoverci al più presto possibile.»
«Come vuole, doc», rispose amabilmente Pitt. «Entro dieci minuti l'elicottero sarà pronto per partire.»
«Bene», approvò Hunnewell. «Ora ci troviamo nell'area in cui l'iceberg è stato avvistato dall'aereo in servizio di pattugliamento. Secondo i miei calcoli, con la deriva attuale, dovrebbe raggiungere il margine della Corrente del Golfo entro domani. Se la stima del pilota dell'aereo circa la grandezza era esatta, l'iceberg ha già cominciato a sciogliersi nella misura di mille tonnellate all'ora. Quando raggiungerà l'acqua più calda della Corrente del Golfo, non durerà dieci giorni. Rimane un unico interrogativo: quando il relitto si libererà dal ghiaccio? In teoria potrebbe essere già perduto; possiamo solo sperare che sia ancora al suo posto e che ci rimanga per qualche giorno.»
«Secondo i suoi calcoli, qual è la distanza in volo?» chiese Pitt.
«All'incirca centocinquanta chilometri», spiegò Hunnewell.
Koski lanciò un'occhiata a Pitt. «Non appena decollerà, ridurrò la velocità a un terzo e manterrò la direzione di uno-zero-sei gradi. Quanto tempo dovrà passare prima del rendez-vous con noi?»
«Tre ore e mezzo dovrebbero essere sufficienti», rifletté Pitt.
Koski assunse un'espressione pensierosa. «Quattro ore... Dopo quattro ore verrò a cercarvi nel pack.»
«Grazie, comandante», fece Pitt. «Può credermi se le dico che sono grato per la sua premura.»
Koski gli credette. «È certo che io non possa portare il Catawaba più vicino alla vostra area di ricerca? Se vi capitasse un incidente sull'iceberg o doveste scendere in mare, non credo che ce la farei a raggiungervi in tempo. Nell'acqua a poco più di quattro gradi, un uomo completamente vestito può sopravvivere venticinque minuti.»
«È un rischio che dobbiamo correre.» Pitt finì il caffè e guardò la tazza vuota. «I russi potrebbero aver già sentito puzza di bruciato se uno dei loro pescherecci ha avvistato il mezzo della Guardia Costiera che incrociava, domenica, in un'area al di fuori della regolare posizione di pattuglia. Ecco perché l'ultima tappa deve essere compiuta con un elicottero. Potremmo tenerci a bassa quota per evitare di comparire sui radar; e sarà difficile avvicinarci visualmente. Anche il fattore tempo è importante. Un elicottero può arrivare e ripartire dalla posizione del Novgorod in un decimo del tempo che impiegherebbe il Catawaba.»
«D'accordo», sospirò Koski. «Spetta a lei decidere. Ma cerchi di posarsi sulla piattaforma d'atterraggio non più tardi...» Esitò e diede un'occhiata all'orologio. «Non più tardi delle dieci e mezzo.» Poi sorrise. «Se farà il bravo ragazzo e arriverà puntuale, le farò trovare una bottiglia di Johnny Walker.»
«Questo sì che è un incentivo!» esclamò Pitt, ridendo.
«Non mi piace», gridò Hunnewell nel fracasso del motore dell'elicottero. «A quest'ora avremmo già dovuto avvistare qualcosa.»
Pitt diede un'occhiata all'orologio. «Il tempo non ci manca. Abbiamo a disposizione ancora due ore.»
«Non può salire più in alto? Se raddoppiamo il raggio della visuale, raddoppiamo anche le possibilità di avvistare l'iceberg.»
Pitt scosse la testa. «Niente da fare. Raddoppieremmo anche il rischio di essere scoperti. Saremo più sicuri se resteremo a cinquanta metri.»
«Dobbiamo trovare la nave entro oggi», disse Hunnewell con un'espressione ansiosa sul viso paffuto. «Domani potrebbe essere troppo tardi per fare un secondo tentativo.» Studiò la carta che teneva sulle ginocchia, poi prese un binocolo e lo puntò verso nord, in direzione di alcuni iceberg che galleggiavano in gruppo.
«Ne ha notato qualcuno che corrisponda alla descrizione di quello che stiamo cercando?» chiese Pitt.
«Ne abbiamo sorvolato uno, circa un'ora fa, che corrispondeva come grandezza e configurazione, ma non c'era nessuna macchia di colorante rosso.» Hunnewell girò il binocolo e scrutò l'oceano piatto, tempestato di centinaia di grossi iceberg, alcuni frantumati e dentellati, altri tondeggianti e lisci come candidi solidi geometrici lanciati a caso sull'azzurro del mare. «Il mio amor proprio è a pezzi», dichiarò Hunnewell. «Mai, da quando studiavo trigonometria alle superiori, ho sbagliato così clamorosamente i calcoli.»
«Forse il vento è cambiato e ha spinto l'iceberg su di una rotta diversa.»
«È molto difficile», borbottò Hunnewell. «La massa immersa di un iceberg è almeno sette volte maggiore di quella visibile in superficie. Solo una corrente oceanica può avere qualche effetto sul suo movimento: può facilmente spostarlo anche contro un vento di venti nodi.»
«Una forza irresistibile e un oggetto che non si può spostare... combinati insieme.»
«Già, questo e molto di più. Il fatto che è quasi indistruttibile.» Hunnewell continuò a guardare con il binocolo. «Naturalmente, gli iceberg si frantumano e si sciolgono quando vanno alla deriva verso sud, in acque più calde. Tuttavia, durante il transito verso la Corrente del Golfo, non si arrendono né alle tempeste né all'uomo. Gli iceberg staccatisi da ghiacciai sono stati bersagliati con siluri, cannoni da otto pollici, dosi massicce di bombe incendiarie e tonnellate di polvere di carbone... Queste ultime avevano lo scopo di assorbire il calore solare e accelerare il processo di scioglimento. I risultati sono sempre stati paragonabili ai danni subiti da un branco di elefanti dopo una salva di tiri di fionda da parte di una tribù di pigmei anemici.»
Pitt effettuò una stretta virata e girò intorno alle pareti a picco di un iceberg altissimo... Una manovra che fece torcere lo stomaco di Hunnewell.
Controllò di nuovo la carta. Avevano coperto un'area di trecentoventi chilometri per trecentoventi e non avevano trovato niente. «Proviamo a nord per un quarto d'ora. Poi si diriga di nuovo verso est e il margine del pack, quindi a sud per dieci minuti prima di tornare verso ovest.»
«Provvedo subito», disse Pitt. Inclinò leggermente i comandi e l'elicottero virò fino a che la bussola non indicò zero gradi.
I minuti trascorsero e si moltiplicarono, e la stanchezza cominciò a incidere rughe più profonde intorno agli occhi di Hunnewell. «Come stiamo a carburante?»
«È l'ultimo dei nostri problemi», rispose Pitt. «Ora come ora, gli elementi che scarseggiano sono il tempo e l'ottimismo.»
«Tanto vale ammetterlo», sospirò Hunnewell. «Io l'ottimismo l'ho esaurito un quarto d'ora fa.»
Pitt gli strinse il braccio. «Resista, doc», disse, a mo' d'incoraggiamento. «Può darsi che il nostro iceberg inafferrabile sia dietro il prossimo angolo.»
«Se è così, allora ha sfidato tutte le leggi della deriva.»
«Il colorante rosso. È possibile che la tempesta di ieri lo abbia cancellato?»
«No, per fortuna. Il colorante contiene cloruro di calcio, un ingrediente necessario per la penetrazione in profondità... Occorrono settimane, a volte mesi, perché la macchia sparisca.»
«Quindi ci rimane solo un'altra possibilità.»
«So a che sta pensando», disse Hunnewell in tono asciutto. «Ma lo escludo. Ho collaborato spesso con la Guardia Costiera durante gli ultimi trent'anni, e non mi risulta che abbiano mai sbagliato nell'indicare la posizione di un avvistamento.»
«E allora un pezzo di ghiaccio da un milione di tonnellate è evaporato in...»
Pitt non terminò la frase, un po' perché l'elicottero cominciava a scostarsi dalla rotta, un po' perché aveva visto qualcosa. Hunnewell s'irrigidì e si tese in avanti, con il binocolo incastrato nelle orbite.
«Ci siamo!» esclamò lo scienziato.
Pitt non attese altri segnali d'incoraggiamento. Ridusse la quota dell'elicottero e puntò nella direzione indicata dal binocolo.
Hunnewell passò il binocolo a Pitt. «Su, dia una sbirciata e mi dica che i miei occhi non vedono un miraggio.»
Pitt giostrò con il binocolo e i comandi dell'elicottero mentre si sforzava d'impedire che le vibrazioni del motore facessero apparire sfocato l'iceberg.
«Riesce a vedere il colorante rosso?» chiese Hunnewell in tono ansioso.
«Sembra una striatura fragola in mezzo a un gelato alla vaniglia.»
«Non capisco.» Hunnewell scosse la testa. «L'iceberg non dovrebbe essere là. Secondo le leggi delle correnti e delle derive dovrebbe trovarsi almeno centocinquanta chilometri più a sud-ovest.»
Invece era lì, e spiccava contro la linea netta dell'orizzonte: un frammento di ghiaccio massiccio e torreggiante, scolpito dalla natura e deturpato da sostanze chimiche artificiali. Prima che Pitt abbassasse il binocolo, i cristalli di ghiaccio dell'iceberg furono investiti dal sole e gli rifletterono la luce negli occhi con un'intensità che parve esplodere attraverso le lenti. Momentaneamente accecato, Pitt riprese quota e modificò la rotta di qualche grado per eliminare il riflesso. Passò quasi un minuto prima che i bagliori accecanti svanissero dai suoi occhi.
Poi, all'improvviso, notò nell'acqua un'ombra indistinta, quasi impercettibile. Ebbe appena il tempo di distinguere la sagoma scura mentre l'elicottero sorvolava le onde azzurre a meno di trenta metri dai pattini. L'iceberg era ancora a una dozzina di chilometri quando Pitt virò in un grande semicerchio in direzione del Catawaba.
«Che diavolo le ha preso?» tuonò Hunnewell.
Pitt ignorò la domanda. «Temo che abbiamo ospiti non invitati.»
«Sciocchezze! In giro non si vedono né navi né mezzi aerei.»
«Vengono alla festa passando dalla cantina.»
Hunnewell inarcò le sopracciglia con aria interrogativa. Poi si accasciò sul sedile. «Un sottomarino?»
«Indovinato.»
«È possibile che sia uno dei nostri.»
«Mi dispiace, doc, ma il suo non è altro che un pio desiderio.»
«Allora i russi sono arrivati prima di noi.» Hunnewell strinse le labbra. «Buon Dio, ormai è troppo tardi.»
«Non ancora.» Pitt guidò l'elicottero in un altro cerchio e tornò verso l'iceberg. «Fra quattro minuti saremo sul ghiaccio. Il sottomarino impiegherà almeno mezz'ora per raggiungerlo. Se avremo un po' di fortuna, potremo scoprire che cosa sono venuti a cercare e ce la fileremo prima che sbarchi il loro equipaggio.»
«Non c'è un gran margine di tempo.» Hunnewell sembrava piuttosto titubante. «Quando i russi c'individueranno sull'iceberg, non ci verranno incontro disarmati, le pare?»
«Mi sorprenderebbe se lo facessero. Il comandante del sottomarino russo ha a disposizione armi sufficienti per farci a pezzi quando e come vuole. Ma sono pronto a scommettere che non correrà il rischio.»
«Che cos'ha da perdere?»
«Niente. Però ci guadagnerebbe le ripercussioni di un bell'incidente internazionale. Un comandante degno di questo nome avrà la certezza che siamo in continuo contatto radio con la nostra base, che abbiamo segnalato la posizione del sottomarino e siamo pronti a strillare come aquile spennate al primo sparo. Questa parte dell'Atlantico è territorio nostro, e lui lo sa. È troppo lontano da Mosca per recitare la parte del bullo di quartiere.»
«D'accordo, d'accordo», borbottò Hunnewell. «Proceda pure e atterriamo. Immagino che diventare bersagli di un attacco sia sempre meglio che restare ancora a bordo di questo frullatore.»
Pitt non ribatté. Eseguì la manovra di avvicinamento e posò l'elicottero senza problemi su un piccolo tratto di ghiaccio pianeggiante lungo sei metri e largo cinque. Poi, prima che le pale del rotore si arrestassero, Pitt e Hunnewell balzarono fuori dell'abitacolo e si fermarono sull'iceberg silenzioso chiedendosi quando sarebbe emerso il sottomarino russo e che cosa avrebbero trovato sotto la coltre di ghiaccio che li separava dalle acque gelide e ostili. Non vedevano né sentivano tracce di vita. La brezza fredda sfiorava le loro guance, ma, a parte questo, non c'era nulla, assolutamente nulla.
3.
Vari minuti trascorsero nel silenzio assoluto prima che Pitt trovasse qualcosa da dire. Quando finalmente si decise, la sua voce gli parve un vago sussurro. Perché sussurro? si chiese. Hunnewell stava sondando il ghiaccio a dieci metri da lui; il sottomarino russo, che ora galleggiava immobile in superficie, stava a quattrocento metri dal lato nord dell'iceberg. Finalmente Pitt riuscì ad attirare l'attenzione di Hunnewell, anche se quel silenzio così profondo e irreale pareva ovattare la sua voce.
«Non abbiamo molto tempo, doc», disse. Non riusciva a liberarsi dall'idea che ci fosse qualcuno in ascolto, sebbene i russi non potessero captare le sue parole neppure se avesse gridato.
«Lo so benissimo», ribatté Hunnewell. «Quanto ci vorrà perché arrivino qui?»
«Calcolando che devono mettere in acqua un gommone, remare e raggiungere l'iceberg a circa quattrocento metri di distanza, impiegheranno fra i quindici e i venti minuti.»
«Non abbiamo tempo da perdere», ammise Hunnewell, impaziente.
«Trovato qualcosa?»
«No!» tuonò lo scienziato. «Il relitto deve trovarsi a una profondità maggiore di quanto pensavo.» Piantò febbrilmente la sonda nel ghiaccio. «È qui. Deve essere qui. Una nave lunga quaranta metri non può sparire.»
«Forse la Guardia Costiera ha avvistato una nave fantasma.»
Hunnewell si fermò per assestarsi gli occhiali da sole. «L'equipaggio dell'aereo potrebbe aver avuto un'illusione ottica, ma non certo il radar.»
Pitt si avvicinò al portello aperto dell'elicottero. Girò lo sguardo verso Hunnewell, poi di nuovo verso il sottomarino, quindi cominciò a scrutare con il binocolo. Studiò le figure minuscole che uscivano dai boccaporti e si muovevano a passo svelto attraverso il ponte spazzato dal mare. Dopo meno di tre minuti, un grosso gommone a sei posti era già stato gonfiato, calato in acqua e occupato da un gruppo di uomini che portavano un vero assortimento di armi automatiche. Poi uno schiocco indistinto volò sull'acqua azzurra. Il suono fu sufficiente perché Pitt modificasse in modo drastico la stima iniziale dei tempi.
«Stanno arrivando. Sono cinque, forse sei. Non lo so con certezza.»
«Sono armati?» Il tono di Hunnewell era ansioso.
«Fino ai denti.»
«Mio Dio!» gridò Hunnewell, esasperato. «Non stia lì a bocca aperta. Mi aiuti a cercare il relitto.»
«Se lo scordi», rispose Pitt con calma. «Saranno qui fra cinque minuti.»
«Cinque minuti? Aveva detto...»
«Non avevo previsto che il loro gommone avesse un motore fuoribordo.»
Hunnewell fissò allibito il sottomarino. «Come hanno fatto i russi a sapere del relitto? Com'è possibile che conoscessero la posizione?»
«Non è stata una grande impresa», rispose Pitt. «Uno dei loro agenti del KGB a Washington deve aver messo le mani sul rapporto dell'avvistamento inoltrato dalla Guardia Costiera... un rapporto che non era segreto. Poi hanno mandato tutti i pescherecci e tutti i sottomarini presenti in questa parte dell'Atlantico a esaminare gli iceberg. È stata una sfortuna per noi e una fortuna per loro che abbiamo scoperto l'iceberg nello stesso momento.»
«A quanto pare abbiamo buttato via il risultato della partita», borbottò mestamente Hunnewell. «Hanno vinto loro, e noi abbiamo perso. Accidenti, se almeno riuscissimo a individuare lo scafo del relitto, potremmo distruggerlo con bombe incendiarie ed evitare così che i russi ci mettano sopra le mani.»
«Il bottino va al vincitore», mormorò Pitt. «Un milione di tonnellate di purissimo ghiaccio della Groenlandia finirà nell'oceano Atlantico.»
Hunnewell era sconcertato, ma non disse niente. L'apparente indifferenza di Pitt non aveva senso.
«Doc, mi dica un po'», continuò Pitt, accendendosi una sigaretta, «che giorno è oggi?»
«Che giorno è?» ripeté Hunnewell, sorpreso. «È mercoledì ventotto marzo.»
«Siamo in anticipo», commentò Pitt. «In anticipo di tre giorni per il pesce d'aprile.»
«Non mi sembra il momento di scherzare», ribatté Hunnewell seccamente.
«Perché no? Qualcuno ha giocato un colossale tiro mancino, a noi e a quei buffoni là fuori.» Pitt indicò con un gesto i russi che si avvicinavano rapidamente. «I russi, lei e io siamo i protagonisti della farsa più ridicola che sia mai stata recitata nell'Atlantico settentrionale. Il momento culminante sarà quando tutti scopriremo che su questo iceberg non c'è nessun relitto.» S'interruppe per esalare una nuvola di fumo. «Per la precisione, non c'è mai stato.»
Sul viso di Hunnewell apparve un'espressione a metà tra lo sconcerto profondo e la tenue speranza. «Continui.»
«Prima del contatto radar, l'equipaggio dell'aereo in servizio di pattugliamento ha segnalato di aver avvistato la sagoma di una nave nel ghiaccio; eppure, prima di posarci, noi non abbiamo visto niente. E non basta. Loro erano a bordo di un aereo che volava probabilmente alla velocità di oltre trecento chilometri all'ora. Se mai, era molto più probabile che vedessimo qualcosa dall'elicottero.»
Hunnewell divenne pensieroso, come se valutasse le parole di Pitt. «Non sono sicuro di capire a che cosa voglia alludere.» Poi sorrise, riassumendo l'abituale aria gioviale. «Tuttavia comincio a fidarmi della sua mente subdola. Deve avere un asso nella manica.»
«Non c'è nessuna magia. L'ha detto anche lei: secondo tutte le leggi conosciute delle correnti e della deriva, questo iceberg dovrebbe trovarsi centocinquanta chilometri più a sud-ovest.»
«È vero.» Hunnewell guardò Pitt con rispetto. «In conclusione, che cosa ha in mente?»
«Non 'che cosa' ma 'chi', doc. Qualcuno che ci sta menando tutti per il naso. Qualcuno che ha rimosso il colorante rosso dall'iceberg con la nave e ne ha sparso altro su un iceberg, una specie di specchietto per allodole, a centocinquanta chilometri dal punto giusto.»
«Ma certo! L'iceberg che abbiamo sorvolato ore fa. Aveva la stessa grandezza, la stessa configurazione e lo stesso peso, ma nessuna macchia rossa.»
«È là che troveremo la nave del mistero», disse Pitt. «Esattamente dove lei aveva calcolato che fosse.»
«Ma chi sta facendo questo giochetto?» chiese Hunnewell con aria assorta. «Evidentemente non possono essere i russi: quelli sono disorientati quanto noi.»
«Per il momento non ha importanza», tagliò corto Pitt. «Ciò che conta è fare ciao-ciao a questo palazzo di ghiaccio galleggiante e involarci nell'azzurro. I nostri ospiti non invitati sono qui.» Indicò il declivio dell'iceberg. «Non li ha notati?»
No, Hunnewell non li aveva notati. Ma in quel momento li vide. Il primo degli uomini arrivati con il sottomarino stava balzando sul bordo del ghiaccio. In pochi secondi, avanzarono in cinque in direzione di Pitt e Hunnewell. Erano marine russi in uniforme nera, armati fino ai denti. Anche a cento metri di distanza, Pitt scorse l'atteggiamento inequivocabile di uomini che sanno esattamente ciò che devono fare.
Salì a bordo dell'elicottero, e avviò il motore. Prima ancora che le pale del rotore compissero la prima rivoluzione, Hunnewell si sistemò sul sedile del passeggero e agganciò la cintura di sicurezza.
Pitt si sporse dal portello, si fece portavoce con le mani e gridò ai russi: «Buona permanenza, e mi raccomando di non lasciare in giro i rifiuti».
L'ufficiale alla testa degli uomini sbarcati dal sottomarino tese l'orecchio e scrollò le spalle senza capire. Era certo che Pitt non aveva parlato in russo. Come per segnalare agli occupanti dell'elicottero le sue intenzioni pacifiche, abbassò l'arma automatica e agitò il braccio in segno di saluto mentre Pitt e Hunnewell abbandonavano l'iceberg e s'innalzavano nel fulgido cielo azzurro.
Pitt prese tempo: mantenne l'elicottero alla velocità minima di crociera su una rotta verso nord per una quindicina di minuti. Poi, quando furono fuori della portata del radar del sottomarino, virò in un lungo arco verso sud-ovest. Alle undici e un quarto trovò il relitto.
Mentre scendevano verso il gigante di ghiaccio, Pitt e Hunnewell erano accomunati da una strana sensazione di vuoto. Non era soltanto la fine delle lunghe ore d'incertezza, né il fatto che avevano superato il limite di tempo fissato dal comandante Koski... era l'aspetto bizzarro della nave del mistero. Nessuno dei due aveva mai visto nulla di simile. L'atmosfera intorno all'iceberg era così desolata e terrificante da sembrare quella di un pianeta senza vita lontano anni-luce dalla Terra. Solo i raggi del sole mitigavano un poco quella sensazione di totale immobilità, penetrando nel ghiaccio e distorcendo le linee dello scafo e della sovrastruttura in una serie mutevole di ombre complesse. Era una visione così irreale che per Pitt era difficile accettarne l'esistenza. Mentre regolava i comandi e faceva scendere l'elicottero sul ghiaccio, quasi si aspettava che il vascello sepolto si dileguasse nel nulla.
Cercò di posarsi su un tratto pianeggiante vicino all'orlo dell'iceberg, ma non ci riuscì a causa dell'eccessiva pendenza del ghiaccio. Alla fine scese direttamente sopra il relitto. Hunnewell balzò fuori dell'elicottero un attimo prima che i pattini sfiorassero la superficie e, quando Pitt lo raggiunse, aveva già percorso l'intera lunghezza dell'imbarcazione da prua a poppa.
«Strano», mormorò lo scienziato. «Molto strano. Non c'è niente che sporga al di sopra della superficie, neppure gli alberi e l'antenna radar. Ogni centimetro quadrato è sepolto sotto il ghiaccio.»
Pitt prese un fazzoletto dal giubbotto e si soffiò il naso. Poi fiutò l'aria. «Sente qualche odore fuori del normale, doc?»
Hunnewell inclinò la testa all'indietro e inspirò lentamente. «C'è una specie di odore, sì. Ma è troppo debole, non riesco a riconoscerlo.»
«Perché non frequenta gli ambienti giusti», ribatté Pitt con un gran sorriso. «Se uscisse più spesso dal suo laboratorio e scoprisse qualcosa della vita, riconoscerebbe il sentore inconfondibile dell'immondizia bruciata.»
«Da dove proviene?»
Pitt indicò il relitto sotto i suoi piedi. «Da dove vuole che venga se non da qui?»
Hunnewell scrollò la testa. «Impossibile. È un fatto scientifico; non si può sentire all'esterno l'odore di una sostanza racchiusa in un blocco di ghiaccio.»
«La vecchia proboscide non mente», scherzò Pitt. Il tepore meridiano incominciava a vincere il freddo, e lui aprì la lampo del giubbotto da pilota. «Deve esserci una falla nel ghiaccio.»
«Lei e il suo naso!» esclamò Hunnewell in tono acido. «Le consiglio di smettere di giocare al segugio e di cominciare a piazzare le cariche di esplosivo. L'unico modo per entrare nel relitto è sciogliere la coltre di ghiaccio.»
«È rischioso.»
«Si fidi di me», lo rassicurò Hunnewell. «Non ho intenzione di spaccare in due l'iceberg e di perdere il relitto, l'elicottero e anche noi. Voglio cominciare con piccole cariche e scendere via via a profondità maggiori.»
«Non pensavo all'iceberg, ma al relitto. È possibile che i serbatoi del combustibile si siano spaccati e che la nafta abbia bagnato l'intera lunghezza dello scafo. Se sbagliamo i calcoli e facciamo esplodere troppa termite in un botto solo, l'intero relitto andrà in fumo.»
Hunnewell batté il piede sul ghiaccio compatto. «E come pensa di sfondarlo? Con una piccozza?»
«Dottor Hunnewell», disse con calma Pitt, «non metto in dubbio il fatto che la sua fama sia la diretta conseguenza di una mente iperscientifica. Ma come succede a tanti individui eccezionali, lei non è molto portato per le realtà pratiche della vita quotidiana. Lei parla di cariche di termite e di piccozze da ghiaccio. Perché perdere tempo con piani complessi e faticosi quando possiamo risolvere tutto con un 'apriti, sesamo'?»
«Quello che ha sotto i piedi è ghiaccio di ghiacciaio», ribatté Hunnewell. «È duro e solido. Non può attraversarlo.»
«Mi dispiace, caro amico, ma ha torto marcio», rispose Pitt.
Hunnewell lo fissò, insospettito. «Me lo dimostri!»
«Ecco che cosa volevo dire: il lavoro è già stato fatto. Il nostro Machiavelli e i suoi allegri compagni sono ovviamente arrivati prima di noi.» Pitt alzò la mano in un gesto teatrale. «Osservi, prego.»
Hunnewell inarcò un sopracciglio, guardò in alto e studiò l'ampia faccia del ripido pendio di ghiaccio. Lungo l'orlo esterno e presso la base inferiore, a pochi metri dal punto in cui stavano i due visitatori, il ghiaccio era levigato e regolare. Ma, partendo dalla sommità, verso la parte centrale del pendio, era butterato come la faccia nascosta della luna.
«Bene», mormorò Hunnewell, «sembra che qualcuno si sia dato parecchio da fare per eliminare la macchia di colorante rosso.» Rivolse una lunga occhiata inespressiva alla torreggiante guglia di ghiaccio, quindi si girò di nuovo verso Pitt. «Perché mai qualcuno si sarebbe preso il disturbo di scalpellare la macchia quando avrebbe potuto eliminare facilmente ogni traccia usando gli esplosivi?»
«Non saprei rispondere», disse Pitt. «Forse avevano paura di causare incrinature nell'iceberg, o non disponevano di esplosivi. Chi può dirlo? Comunque sono pronto a scommettere un mese di stipendio che i nostri furbi amichetti non si sono limitati a scalpellare il ghiaccio. Sicuramente hanno trovato il modo di penetrare nel relitto.»
«Quindi l'unica cosa che dobbiamo fare è cercare una scritta lampeggiante che dica: ENTRATA.» Hunnewell aveva assunto un tono sarcastico. Non era abituato a trovarsi di fronte qualcuno dotato di un intuito più acuto del suo, e l'espressione del suo viso rivelava che la cosa non gli piaceva.
«Un punto debole nel ghiaccio sarebbe più appropriato.»
«Devo dedurre», borbottò Hunnewell, «che secondo la sua ipotesi dovrebbe esserci una copertura mimetica su una specie di galleria.»
«È un pensiero che mi è passato per la mente, lo ammetto.»
Il dottore sbirciò Pitt al di sopra degli occhiali. «E allora diamoci da fare. Se restiamo ancora qui a formulare ipotesi, probabilmente mi si congeleranno i testicoli.»
In teoria non era difficile. Le cose però non andarono lisce come Pitt aveva previsto. L'imprevedibile avvenne quando Hunnewell perse l'equilibrio sul pendio e scivolò verso un cornicione ripido che scendeva a picco nel mare gelido. Cadde in avanti, cercò disperatamente di afferrarsi al ghiaccio con le unghie che graffiavano la superficie dura e si rovesciavano dolorosamente all'indietro. Riuscì a rallentare per un po', ma non fu sufficiente. La caduta fu così improvvisa che le sue caviglie stavano già sfiorando il ciglio del precipizio di dieci metri, prima che gli venisse in mente di gridare per chiedere aiuto.
Pitt era occupato a svellere un frammento di ghiaccio smosso quando sentì l'urlo. Si voltò di scatto, si accorse della situazione precaria di Hunnewell e capì che il salvataggio sarebbe stato impossibile se il dottore fosse caduto nell'acqua gelida. Con un movimento fulmineo, si tolse il giubbotto da pilota e si lanciò attraverso il pendio con i piedi in avanti e le gambe sollevate in aria.
Per Hunnewell, obnubilato dal panico, la mossa di Pitt sembrò un atto di follia pura. «Oh, Dio, no, no!» gridò. Ma non poteva far altro che restare a guardare Pitt che piombava verso di lui come un bob. Forse, pensò, se Pitt fosse rimasto sull'iceberg ci sarebbe stata una speranza... ma in quel momento gli sembrava un fatto certo che entrambi sarebbero piombati insieme nell'oceano. Venticinque minuti: le parole del comandante Koski gli balenarono nella mente. Venticinque minuti erano il tempo che un uomo poteva sperare di sopravvivere nell'acqua a quattro gradi... e anche se avessero avuto a disposizione tutto il tempo del mondo non sarebbero riusciti ad arrampicarsi sulle pareti scoscese dell'iceberg.
Se avesse avuto qualche momento per riflettere, senza dubbio Pitt si sarebbe dichiarato d'accordo con Hunnewell. Sembrava un pazzo mentre scivolava sul ghiaccio con i piedi sollevati al di sopra della testa. All'improvviso, quando restava poco meno di un metro prima che andasse a urtare contro Hunnewell, Pitt riabbassò fulmineamente i piedi con un'energia e una rapidità che, persino in quella situazione disperata, gli strapparono un gemito di dolore. Piantò i tacchi nel ghiaccio, li affondò tenacemente e si arrestò con una violenza che gli squassò i muscoli. Poi, come se agisse d'istinto, con lo stesso movimento lanciò in direzione di Hunnewell una manica del giubbotto.
Lo scienziato, in preda al terrore, non ebbe bisogno d'incitamenti. Afferrò la stoffa di nylon in una stretta che nessuna morsa avrebbe saputo imitare e restò aggrappato, tremando, per quasi un minuto, in attesa che il suo cuore non più giovanissimo riprendesse a battere in modo quasi normale. Impaurito, lanciò un'occhiata di lato e vide ciò che i suoi sensi storditi non potevano percepire... il bordo del cornicione di ghiaccio che gli premeva contro il ventre all'altezza dell'ombelico.
«Quando se la sente», disse Pitt con voce calma ma sfumata da una percettibile tensione, «cerchi d'issarsi verso di me.»
Hunnewell scosse la testa. «Non ce la faccio», mormorò con voce rauca. «Il massimo che posso fare è tenermi aggrappato.»
«Riesce a puntellarsi con i piedi?»
Hunnewell non rispose. Si limitò a scuotere la testa una seconda volta.
Pitt si chinò in avanti e strinse più forte il giubbotto. «Siamo bloccati grazie a un paio di tacchi di gomma dura, non a chiodi d'acciaio per alpinisti. Non ci vorrà molto prima che il ghiaccio s'incrini.» Rivolse a Hunnewell un sorriso incoraggiante. «Non faccia movimenti improvvisi. La tirerò su oltre l'orlo.»
Questa volta Hunnewell annuì. Un senso di nausea gli tormentava lo stomaco, i polpastrelli feriti martellavano, la faccia madida di sudore rispecchiava terrore e panico. Solo una cosa riusciva a penetrare attraverso la paura: l'espressione decisa negli occhi di Pitt. Fissò il viso scarno e abbronzato e in quel momento comprese che la forza interiore e la sicurezza di Pitt si stavano conquistando uno spazio nella sua mente impaurita.
«La smetta di sogghignare», sibilò. «E cominci a tirare.»
Cautamente, centimetro per centimetro, Pitt rimorchiò Hunnewell verso l'alto. Impiegò un tormentoso minuto per riuscire a portare la testa di Hunnewell fra le sue ginocchia. Poi, una mano alla volta, lasciò il giubbotto e afferrò lo scienziato sotto le ascelle.
«È stata la parte più facile», annunciò. «Adesso tocca a lei.»
Hunnewell, che adesso aveva le mani libere, si passò una manica sulla fronte sudata. «Non posso garantirlo.»
«Il compasso... lo ha portato?»
Per un momento la faccia di Hunnewell rimase inespressiva. Poi annuì. «Nella tasca interna.»
«Bene», mormorò Pitt. «Ora passi addosso a me e si stenda in tutta la sua lunghezza. Quando avrà piazzato saldamente i piedi sulle spalle, prenda il compasso e lo pianti con forza nel ghiaccio.»
«Come un chiodo!» esclamò Hunnewell, che aveva compreso. «Veramente geniale, maggiore.»
Sbuffando come una locomotiva che sale le Montagne Rocciose, lo scienziato prese a trascinarsi sopra la figura prona di Pitt. La manovra riuscì. Poi, con le mani di Pitt che gli stringevano saldamente le caviglie, prese il compasso dalle punte d'acciaio che usava abitualmente per tracciare le distanze sulle carte, e lo piantò nel ghiaccio.
«Bene», borbottò.
«Adesso ripeteremo il movimento», disse Pitt. «Ce la fa a tenersi stretto?»
«Sì, ma si sbrighi», rispose Hunnewell. «Ho già le mani intorpidite.»
Con un tacco ancora incastrato nel ghiaccio, per precauzione, Pitt fece gravare il proprio peso sulle gambe dello scienziato. Il compasso resse. Lavorò con la sveltezza e l'agilità di un gatto: passò addosso a Hunnewell, sentì le proprie mani brancolare oltre l'orlo del pendio nel tratto in cui si spianava e, contorcendosi, si portò al sicuro. Non sprecò un istante. Quasi immediatamente Hunnewell si accorse che Pitt stava lanciando dall'elicottero una corda di nylon. Quasi un minuto più tardi, l'oceanografo, pallido ed esausto, sedette sul ghiaccio ai piedi di Pitt.
Sospirò profondamente e alzò gli occhi verso di lui. «Sa che farò per prima cosa quando torneremo nel mondo civile?»
«Sì», rispose Pitt con un sorriso. «Mi offrirà la cena più squisita che si possa trovare a Reykjavik, rastrellerà tutto il liquore che sarò in grado di bere e in più mi presenterà a un'affascinante islandese ninfomane.»
«La cena e il liquore sono a sua disposizione... glieli devo. Però non posso prometterle la ninfomane perché sono passati troppi anni dal tempo in cui... contrattavo le grazie delle donne, e temo di aver perso il tocco magico.»
Pitt rise, gli batté una mano sulla spalla e lo aiutò a rialzarsi in piedi. «Non si preoccupi, vecchio mio. Le ragazze sono la mia specialità.» Poi s'interruppe. «Sembra che abbia tenuto le mani contro una mola», commentò.
Hunnewell alzò le mani e guardò con aria indifferente le dita che sanguinavano. «Sono ridotte meno peggio di quanto sembrino. Un po' di disinfettante e un lavoro di manicure, e torneranno come nuove.»
«Venga», disse Pitt. «A bordo c'è una cassetta di pronto soccorso. Ci penserò io.»
Qualche minuto dopo, mentre Pitt finiva di bendargli le dita, Hunnewell chiese: «Ha trovato qualche traccia della galleria, prima che io scivolassi?»
«Sì. È un lavoro molto abile», rispose Pitt. «L'intera circonferenza della copertura dell'entrata ha una strombatura che s'inserisce alla perfezione nel ghiaccio circostante. Se qualcuno non fosse stato così imprudente da intagliare una specie di presa per afferrarla, ci sarei passato sopra senza accorgermi di nulla.»
Hunnewell si oscurò in viso. «Questo maledetto iceberg», borbottò. «Sono persuaso che ce l'abbia con noi. Una faccenda personale.»
Piegò le dita e studiò con aria solenne le otto bende che gli fasciavano i polpastrelli. Aveva un'espressione tesa negli occhi e la faccia stanca.
Pitt si avvicinò, sollevò una lastra rotonda di ghiaccio che aveva un diametro di un metro e uno spessore di una decina di centimetri, e rivelò un tunnel rozzamente scavato, grande appena quanto bastava perché un uomo potesse avanzarvi strisciando. Girò istintivamente la testa: dall'apertura usciva il lezzo acre di vernice, stoffa e carburante bruciati, mescolato a quello del metallo trattato con la fiamma ossidrica.
«E questo dimostra che sono in grado di sentire gli odori attraverso un cubo di ghiaccio», annunciò.
«Sì, ha superato l'esame dell'olfatto», ammise Hunnewell. «Ma ha sbagliato completamente la teoria delle cariche di termite. Là sotto non c'è altro che un guscio bruciato.» S'interruppe per lanciare a Pitt un'occhiata al di sopra delle lenti. «Avremmo potuto continuare a farle esplodere fino alla prossima estate senza causare danni al relitto.»
Pitt alzò le spalle. «Un po' si vince e un po' si perde.» Passò a Hunnewell una torcia elettrica. «Vado io per primo, e mi lasci cinque minuti prima di seguirmi.»
Hunnewell si accasciò sul bordo della galleria scavata nel ghiaccio, mentre Pitt s'inginocchiava per entrare.
«Due. Le concedo due minuti, non di più. Poi le verrò dietro.»
Il tunnel, illuminato dai raggi del sole rifratti dai cristalli di ghiaccio, scendeva a un angolo di trenta gradi per almeno sei metri e si fermava davanti alle lastre d'acciaio annerite e deformate dello scafo. Ormai l'odore era così forte che Pitt stentava a respirare. Si scosse e si trascinò fino a mezzo metro dal metallo sfregiato dal fuoco, e scoprì che il tunnel s'incurvava e procedeva parallelo allo scafo per altri tre metri, poi finiva davanti a un portello aperto, deformato e distorto con violenza. Si chiese quale temperatura era stata necessaria per ottenere un simile risultato.
Strisciò oltre il bordo irregolare del portello, si alzò e girò tutto intorno il fascio luminoso della torcia elettrica per esaminare le paratie deformate dal calore. Era impossibile capire quale funzione avesse il compartimento. Ogni centimetro quadrato era sventrato dall'intensità terribile del fuoco. All'improvviso fu assalito dal timore dell'ignoto. Rimase immobile per qualche istante, imponendo alla propria mente di riprendere il controllo delle emozioni, quindi avanzò sui detriti verso la porta che conduceva al corridoio.
Il raggio luminoso della torcia fendette lo spazio nero fino alla scaletta che portava a un ponte inferiore. Il corridoio era vuoto; c'erano solo le ceneri carbonizzate di una passatoia. Pitt rifletté sulla stranezza del silenzio che lo circondava. Non si sentivano scricchiolii di piastre, rombi di macchine o sciabordio d'acqua contro lo scafo incrostato di alghe. Nulla, soltanto il silenzio assoluto del vuoto. Esitò sulla soglia per un lungo istante. Il suo primo pensiero, o meglio la sua prima convinzione, era che qualcosa fosse andato davvero storto nei piani dell'ammiraglio Sandecker. Non era affatto ciò che si aspettavano.
Hunnewell passò dal portello e si fermò accanto a lui, scrutò le paratie annerite, il metallo distorto e cristallizzato e i cardini fusi che un tempo avevano sostenuto una porta di legno. Si appoggiò stancamente allo stipite con gli occhi semichiusi, e scosse la testa come se uscisse da una trance.
«Troveremo ben poco che possa esserci utile.»
«Non troveremo niente», ribatté con fermezza Pitt. «Quel poco che è sopravvissuto al fuoco, i nostri amici sconosciuti l'hanno portato via.» E, come per sottolineare le sue parole, fece girare il raggio luminoso sul ponte e rivelò numerose impronte sovrapposte impresse nella fuliggine, che andavano e venivano dal portello aperto. «Vediamo che cos'hanno combinato.»
Passarono nel corridoio scavalcando le ceneri e i detriti, raggiunsero un altro compartimento ed entrarono. Era stata la sala radio, ma ciò che ne restava era quasi irriconoscibile. La cuccetta e i mobili erano scheletri di legno carbonizzato, i resti dell'apparecchiatura radio erano una massa di metallo fuso e di gocce di stagno per saldature. Ormai si erano abituati al lezzo intenso e all'ambiente grottesco, ma non erano preparati alla vista della figura orrendamente deforme che giaceva sul ponte.
«Oh, buon Dio!» gemette Hunnewell. Lasciò cadere la torcia elettrica, la quale rotolò sul ponte e si fermò contro i resti spaventosamente sfigurati di una testa, illuminando il teschio e i denti visibili a tratti nella carne incenerita.
«Non invidio il modo in cui è morto», mormorò Pitt.
Lo spettacolo atroce era insopportabile per Hunnewell, che si avviò barcollando verso un angolo e per qualche minuto fu scosso da conati di vomito. Quando tornò a fianco di Pitt, aveva l'aria di un morto risuscitato.
«Mi scusi», disse timidamente. «Non avevo mai visto un cadavere cremato. Non immaginavo che fosse così... non ci avevo mai pensato. Non è una vista piacevole, vero?»
«Non esiste un cadavere dall'aspetto piacevole», ribatté Pitt che cominciava a provare a sua volta un senso di nausea. «Se quel mucchio di ceneri sul ponte lascia presagire ciò che ci aspetta, dovremmo trovarne almeno altri quattordici.»
Con una smorfia, Hunnewell si chinò e raccolse la torcia elettrica. Poi prese dalla tasca un taccuino, tenne la torcia sotto il braccio e sfogliò le pagine. «Sì, ha ragione. La nave era partita con sei membri d'equipaggio e nove passeggeri, quindici in tutto.» Girò altre pagine. «Questo povero diavolo dovrebbe essere l'operatore radio, Svendborg... Gustav Svendborg.»
«Forse sì e forse no. L'unico che potrebbe dirlo con certezza è il suo dentista.» Pitt fissò ciò che un tempo era stato un uomo in carne e ossa e cercò d'immaginare come era giunta la fine. Una muraglia di fiamme rosse e arancio, un breve urlo disumano, lo shock tremendo della sofferenza che faceva precipitare la mente nell'immediata follia, le membra contorte nella danza della morte. Morire tra le fiamme, pensò, e trascorrere in una sofferenza indicibile gli ultimi secondi di vita, era una prospettiva aborrita da tutti gli esseri viventi.
S'inginocchiò e studiò più da vicino il corpo. Socchiuse le palpebre e strinse le labbra. Doveva essere accaduto quasi come aveva immaginato... ma non esattamente. La forma carbonizzata era raggomitolata in posizione fetale, con le ginocchia sollevate quasi contro il mento e le braccia strette ai fianchi, contratte dal calore intenso. Tuttavia qualcos'altro colpì l'attenzione di Pitt. Puntò il raggio della torcia elettrica sul ponte accanto al cadavere e illuminò le gambe d'acciaio della sedia dell'operatore radio che sporgevano al di sotto dei resti sfigurati.
Hunnewell, pallidissimo, chiese: «Che ci trova di tanto interessante in quella cosa orribile?»
«Dia un'occhiata», mormorò Pitt. «Sembra che il povero Gustav fosse seduto, quando è morto. La sedia è bruciata letteralmente sotto di lui.»
Hunnewell si limitò a guardarlo con aria interrogativa.
«Non le sembra strano», continuò Pitt, «che un uomo muoia tranquillamente bruciato senza neppure alzarsi per tentare di fuggire?»
«No, non c'è niente di strano», lo contraddisse Hunnewell. «Probabilmente il fuoco l'ha avvolto mentre era chino sulla trasmittente e lanciava una richiesta di soccorso.» Poi la nausea ricominciò a soffocarlo. «Dio, non gli siamo molto utili con le nostre congetture. Andiamo via di qui e ispezioniamo il resto della nave finché sono ancora in grado di camminare.»
Pitt annuì, si voltò e varcò la soglia. Insieme si addentrarono nelle viscere del relitto. La sala macchine, la cambusa, il quadrato, dovunque andassero trovavano lo stesso orribile spettacolo di morte incontrato nella sala radio. Quando scoprirono il tredicesimo e il quattordicesimo cadavere nella timoniera, lo stomaco di Hunnewell stava cominciando a diventare immune... Consultò il taccuino varie altre volte e contrassegnò alcune pagine fino a quando rimase un solo nome che non apparisse cancellato con un tratto di matita.
«È tutto», annunciò, richiudendo il taccuino. «Li abbiamo trovati tutti, tranne l'uomo che siamo venuti a cercare.»
Pitt accese una sigaretta, esalò una nuvoletta di fumo azzurro e rifletté per un momento. «Erano tutti carbonizzati e irriconoscibili. Quindi potrebbe essere stato uno di loro.»
«Però non lo era», rispose Hunnewell in tono deciso. «Non dovrebbe essere difficile identificare il cadavere giusto, almeno per me.» Tacque per un momento. «Conoscevo piuttosto bene la nostra selvaggina, lo sa.»
Pitt inarcò le sopracciglia. «No, non lo sapevo.»
«Per la verità non è un segreto.» Hunnewell alitò sulle lenti degli occhiali e le pulì con un fazzoletto. «L'uomo che abbiamo cercato ricorrendo alle menzogne e ai sotterfugi e rischiando la vita, e che con ogni probabilità è morto, aveva partecipato a uno dei miei corsi all'Istituto oceanografico, sei anni fa. Un tipo molto brillante.» Indicò le due figure carbonizzate sul ponte. «Sarebbe un peccato se fosse finito così.»
«Come mai è tanto sicuro di poterlo distinguere dagli altri?» chiese Pitt.
«Per via degli anelli. Aveva una vera mania. Li portava a tutte le dita, tranne che ai pollici.»
«Gli anelli non possono costituire un'identificazione inequivocabile.»
Hunnewell accennò un sorriso. «E poi gli manca un dito del piede sinistro. Le basta?»
«Credo di sì», rispose pensosamente Pitt. «Però non abbiamo trovato un cadavere che corrisponda. E abbiamo già frugato in tutta la nave.»
«Non proprio.» Hunnewell prese un foglietto dal taccuino e lo aprì sotto la luce della torcia elettrica. «Questo è uno schema approssimativo. Ho ricavato una copia dall'originale custodito negli archivi marittimi.» Indicò la carta gualcita. «Vede qui, dopo la sala nautica? C'è una scaletta che scende in un compartimento. È l'unica via d'accesso.»
Pitt studiò il disegno rudimentale. Poi uscì dalla sala nautica. «L'apertura c'è, in effetti. La scaletta è bruciata, ma restano abbastanza sostegni metallici per reggere il nostro peso.»
Il compartimento isolato, situato al centro esatto dello scafo e privo di oblò, era devastato ancora più degli altri. Le piastre metalliche delle pareti erano incurvate verso l'esterno e parevano fogli gualciti di carta da parati. Sembrava vuoto. Dopo l'incendio, non era rimasto nulla che somigliasse a un arredamento. Pitt si stava inginocchiando per rovistare fra le ceneri in cerca di qualche traccia di un corpo, quando Hunnewell gridò.
«Qui!» E si buttò in ginocchio. «Qui nell'angolo.» Puntò il fascio luminoso sui contorni di qualcosa che era stato un uomo e adesso era solo un mucchio di ossa carbonizzate. Erano riconoscibili soltanto alcuni tratti della mandibola e della pelvi. Si chinò ancora di più e cominciò a rovistare. Quando si rialzò, teneva nella mano diversi pezzi di metallo distorto.
«Forse non sarà una prova incontrovertibile, ma almeno ci avviciniamo alla verità.»
Pitt prese i frammenti di metallo fuso e li illuminò con la torcia elettrica.
«Ricordo bene gli anelli», rifletté Hunnewell. «Le montature erano realizzate splendidamente e c'erano incastonate otto pietre semipreziose provenienti dall'Islanda. Ognuna era intagliata con l'effigie di un antico dio nordico.»
«Mi sembra sensazionale, ma troppo vistoso», commentò Pitt.
«Forse per lei», rispose con calma Hunnewell. «Ma se l'avesse conosciuto...» Non finì la frase.
Pitt guardò Hunnewell con aria interrogativa. «Si affeziona sempre così ai suoi studenti?»
«Genio, avventuriero, scienziato, leggenda, decimo uomo al mondo in ordine di ricchezza prima ancora di compiere i venticinque anni. Un personaggio buono e gentile, per nulla corrotto dalla fama e dalla ricchezza. Sì, credo di poter affermare che un'amicizia con Kristjan Fyrie fosse un legame affettivo.»
Era strano, pensò Pitt. Era la prima volta che lo scienziato pronunciava il nome di Fyrie da quando avevano lasciato Washington... e l'aveva pronunciato in tono sommesso, quasi riverente. Lo stesso tono, ricordava Pitt, usato anche dall'ammiraglio Sandecker quando aveva parlato dell'islandese.
Pitt non provava nessun senso di venerazione mentre stava accanto ai miseri resti dell'uomo che era stato uno dei personaggi più potenti della finanza internazionale. E, mentre lo guardava, la sua mente non riusciva ad associare le ceneri all'individuo in carne e ossa che i quotidiani del mondo indicavano come l'apoteosi del jet-set intellettuale. Forse, se avesse conosciuto personalmente il celebre Kristjan Fyrie, adesso avrebbe provato qualche emozione. Ma ne dubitava sinceramente. Non era il tipo che si lasciava impressionare con facilità. Spoglia l'uomo vivente più grande, gli aveva detto una volta suo padre, e ti troverai di fronte a un animale imbarazzato, nudo e indifeso.
Pitt osservò per un momento gli anelli di metallo deformato, quindi li restituì a Hunnewell. Proprio in quell'attimo sentì un debole movimento sul ponte sovrastante. Rimase immobile ad ascoltare con estrema attenzione. Il suono però era svanito nell'oscurità al di là della botola. C'era qualcosa di molto sinistro nel silenzio che aleggiava nella cabina devastata... la sensazione che qualcuno spiasse ogni loro movimento, ascoltasse ogni parola che si scambiavano. Pitt si preparò a reagire per difendersi, ma ormai era troppo tardi. Un fascio di luce abbagliante penetrò nel locale dall'alto della scaletta e lo accecò.
«State derubando i morti, signori? Per Dio, credo che voi due siate capaci di tutto o quasi.» La faccia era nascosta dalla luce, ma la voce, inequivocabilmente, apparteneva al comandante Koski.
4.
Senza muoversi e senza rispondere, Pitt rimase al centro del locale carbonizzato. Gli sembrò di restare così per un'eternità, mentre il suo cervello era all'opera per spiegare la presenza di Koski. Aveva previsto che alla fine il comandante sarebbe arrivato, ma non prima di altre tre ore. Ormai era evidente che, invece di attendere l'ora stabilita per il rendez-vous, Koski aveva modificato la rotta del Catawaba, spingendolo a tutta velocità nella direzione calcolata da Hunnewell non appena l'elicottero era scomparso dalla sua vista.
Koski puntò il fascio luminoso verso la scaletta. Accanto a lui apparve la faccia di Dover. «Abbiamo molte cose da discutere. Maggiore Pitt, dottor Hunnewell, prego.»
Pitt avrebbe voluto rispondere a quell'invito con una nutrita serie di domande, ma vi rinunciò. Disse invece: «Un corno, Koski! Scenda lei! E si porti dietro quell'armadio ambulante di comandante in seconda, se questo la tranquillizza».
Dopo quasi un minuto di silenzio irritato, Koski replicò: «Non è certo in condizioni di avanzare pretese avventate».
«E perché no? Il dottor Hunnewell e io non abbiamo certo intenzione di starcene qui a girare i pollici mentre lei gioca all'investigatore dilettante. La posta in gioco è troppo alta.» Pitt era consapevole di quanto suonassero arroganti le sue parole, ma doveva assolutamente avere la meglio su Koski.
«Non c'è bisogno di arrabbiarsi, maggiore. Basterà una spiegazione sincera. Lei ha mentito dal momento in cui ha messo piede a bordo della mia nave. Altro che Novgorod! Neppure il cadetto più ingenuo dell'Accademia della Guardia Costiera potrebbe identificare questo relitto come peschereccio-spia russo. Le antenne radar, gli apparecchi elettronici sofisticatissimi che ha descritto con tanta competenza... È tutto sparito? Non ho bevuto quel che avete raccontato voi due, neppure all'inizio; ma il vostro racconto era convincente e persino il mio comando, sia pure in modo enigmatico, vi ha appoggiati. Si è servito di me, maggiore, del mio equipaggio e della mia nave come se fosse un tram o un distributore di benzina. Una spiegazione? Sì, non credo di pretendere troppo. Voglio solo la risposta a una domanda semplicissima: che diavolo sta succedendo?»
Ormai Koski è nel sacco, pensò Pitt. Il piccolo comandante baldanzoso non esigeva più chiarimenti, si limitava a chiederli. «Dovrà scendere comunque. Parte della risposta è qui, fra la cenere.»
Dopo un attimo di esitazione, Koski, seguito dal colossale Dover, scese la scaletta e fronteggiò Pitt e Hunnewell. «D'accordo, signori, sentiamo.»
«Avete visto gran parte della nave, immagino», disse Pitt.
Koski annuì. «E abbiamo visto abbastanza. Dopo diciotto anni di salvataggi e recuperi in mare, non avevo mai visto un natante ridotto in un simile stato.»
«Lo ha riconosciuto?»
«È impossibile. Non resta niente che si possa riconoscere. Era un'imbarcazione da diporto, uno yacht. Questo è certo. In quanto al resto, si potrebbe lanciare in aria una moneta.» Koski guardò Pitt con una sfumatura di perplessità negli occhi. «Sono io, quello che si aspetta le risposte, non lei. Dove vuole andare a parare?»
«Il Lax. Mai sentito nominare?»
Koski annuì. «Il Lax sparì più di un anno fa con tutti quelli che si trovavano a bordo, incluso il proprietario, un magnate minerario islandese...» Esitò. «Ah, sì. Fyrie, Kristjan Fyrie. Mio Dio, mezza Guardia Costiera lo cercò per mesi, e non trovò niente. Che c'entra il Lax?»
«È dove si trova lei in questo momento», disse Pitt, scandendo le parole in modo che andassero a segno. Puntò il raggio della torcia elettrica sul ponte. «E questa massa cremata è quanto resta di Kristjan Fyrie.»
Koski spalancò gli occhi e sbiancò in viso. Avanzò di un passo e fissò i miseri resti umani nel cerchio di luce gialla. «Mio Dio, ma è proprio sicuro?»
«Dire che è irriconoscibile sarebbe un eufemismo, ma il dottor Hunnewell è certo al novanta per cento di aver identificato gli oggetti personali di Fyrie.»
«Gli anelli. Ho sentito che cosa stavate dicendo.»
«Non è molto, forse, ma in ogni caso molto più di quanto siamo riusciti a trovare addosso agli altri cadaveri.»
«Non ho mai visto niente di simile», mormorò Koski, sbalordito. «Non è possibile. Uno yacht di queste dimensioni non può scomparire per circa un anno e poi ricomparire bruciato nel cuore di un iceberg.»
«E invece sembra che sia successo appunto questo», concluse Hunnewell.
«Mi rincresce, doc», disse Koski, fissando lo scienziato. «Benché io sia il primo ad ammettere che non sono alla sua altezza quando si tratta di riconoscere le formazioni di ghiaccio, ho girato l'Atlantico settentrionale abbastanza a lungo per sapere che un iceberg può essere deviato dalle correnti, andare alla deriva in cerchio o trascinarsi lungo la costa di Terranova anche per tre anni... e così il Lax potrebbe essere rimasto intrappolato nel ghiaccio. Ma, perdoni il gioco di parole, la teoria fa acqua da tutte le parti.»
«Ha ragione, comandante», annuì Hunnewell. «Le possibilità che succeda una cosa simile sono estremamente remote, tuttavia... Come lei sa, una nave sventrata dal fuoco impiega parecchi giorni per raffreddarsi. Se una corrente o un vento ha spinto lo scafo contro l'iceberg e lo ha tenuto bloccato, allora sarebbero bastate quarantotto ore o anche meno prima che l'intera nave venisse avvolta dall'iceberg. Può ottenere lo stesso risultato premendo un attizzatoio rovente contro un blocco di ghiaccio. L'attizzatoio lo fonde e vi penetra fino a che non si raffredda. E poi il ghiaccio si riforma intorno al metallo e lo imprigiona.»
«D'accordo, doc, un punto a suo favore. Ma c'è un fattore importante che nessuno ha considerato.»
«Quale?» chiese Pitt.
«La rotta finale del Lax», disse Koski in tono fermo.
«Non c'è niente di strano», rispose Pitt. «Era su tutti i giornali. Fyrie, con il suo equipaggio e i passeggeri, aveva lasciato Reykjavik la mattina del dieci aprile dell'anno scorso e si era diretto verso New York. Fu avvistato per l'ultima volta da una petroliera della Standard Oil a un migliaio di chilometri da capo Farewell, in Groenlandia. Poi del Lax non si è più saputo nulla.»
«Fin qui tutto bene.» Koski si rialzò intorno alle orecchie il colletto del giaccone e si sforzò di non battere i denti. «Però l'avvistamento ebbe luogo nei pressi del cinquantesimo parallelo... troppo a sud del limite degli iceberg.»
«Vorrei rammentarle, comandante», intervenne Hunnewell inarcando un sopracciglio con aria intimidatoria, «che proprio la Guardia Costiera in un solo anno ha registrato la presenza di ben millecinquecento iceberg al di sotto del quarantottesimo parallelo.»
«E io vorrei rammentarle, doc», ribatté Koski, «che durante l'anno in questione il numero degli avvistamenti di iceberg a sud del quarantottesimo parallelo si ridusse a zero.»
Hunnewell si limitò ad alzare le spalle.
«Sarebbe più utile, dottor Hunnewell, se lei spiegasse come mai un iceberg è apparso dove prima non ne esistevano e, con il Lax stretto fra le grinfie, abbia ignorato le correnti prevalenti per undici mesi e mezzo e si sia spostato di quattro gradi a nord mentre tutti gli altri iceberg dell'Atlantico stavano andando verso sud alla velocità media di tre nodi orari.»
«Non posso spiegarlo», rispose semplicemente Hunnewell.
«Non può!» Koski sbiancò per l'incredulità. Guardò Hunnewell e poi Pitt, quindi di nuovo Hunnewell. «Fottuti bastardi!» esclamò in tono rabbioso. «Non raccontatemi balle!»
«Il suo linguaggio lascia molto a desiderare, comandante», disse Pitt in tono brusco.
«E che cosa diavolo pretende? Siete due persone intelligenti, ma vi comportate come una coppia di perfetti idioti. Prendiamo il dottor Hunnewell. È uno scienziato di fama internazionale, però non sa neppure spiegare come mai un iceberg possa andare a nord avanzando contro la Corrente del Labrador. Doc, o lei è un imbroglione, o è lo scienziato più stupido che esista. È impossibile che questo iceberg inverta la direzione, com'è impossibile che un ghiacciaio scorra verso l'alto: ecco la verità pura e semplice.»
«Nessuno è perfetto», rispose Hunnewell e scrollò le spalle, rassegnato.
«Non ha nessuna intenzione di rispondere sinceramente, vero?»
«Non è questione di sincerità», intervenne Pitt. «Abbiamo ordini da rispettare, come lei ha i suoi. Fino a un'ora fa Hunnewell e io abbiamo seguito un piano preciso... un piano che adesso è volato dalla finestra.»
«Uh-uh. E qual è la prossima mossa, nel nostro giochetto?»
«Il problema è che non possiamo spiegare tutto», disse Pitt. «Anzi, possiamo spiegare ben poco. Le dirò quel che sappiamo Hunnewell e io. Poi spetterà a lei trarre le conclusioni.»
«Potevate decidervi a farlo prima.»
«Oh, no», esclamò Pitt. «Come comandante della sua nave, lei ha piena autorità. Ha addirittura il potere d'ignorare o di contestare gli ordini del suo comandante in capo, se ritiene che mettano in pericolo il suo equipaggio e il Catawaba. Non potevo correre questo rischio. Dovevamo inventare una copertura per assicurarci la sua piena collaborazione. E non dovevamo confidarci con nessuno. In questo momento sto contravvenendo agli ordini.»
«Potrebbe trattarsi di un'altra copertura.»
«Appunto», sorrise Pitt. «Ma perché? Hunnewell e io non abbiamo più niente da guadagnare. Ci laviamo le mani di questo pasticcio e filiamo in Islanda.»
«E scaricate tutto sulle mie spalle?»
«Perché no? I relitti abbandonati e alla deriva sono di sua competenza. Ricordi il suo motto: Semper paratus, 'sempre pronto'... la Guardia Costiera al salvataggio e tutto il resto.»
L'espressione di disgusto che apparve sulla faccia di Koski era impagabile. «Le sarei molto grato se si attenesse ai fatti senza lasciarsi andare a commenti.»
«Sta bene», disse con calma Pitt. «La storia che le ho raccontato a bordo del Catawaba era vera, fino a un certo punto... Il punto in cui ho sostituito il Novgorod al Lax. Lo yacht di Fyrie, naturalmente, non aveva a bordo apparecchiature elettroniche segrete o altri strumenti. Il 'carico' consisteva d'ingegneri e scienziati illustri della Fyrie Mining Limited, diretti a New York per intavolare trattative segrete con due dei principali esponenti del ministero della Difesa. A bordo, probabilmente in questa cabina, c'era un'enorme quantità di documenti che includevano i risultati di un rilevamento geologico del fondale oceanico. Sotto il mare, i ricercatori di Fyrie avevano scoperto qualcosa che rimane un mistero. Le informazioni avevano un'importanza vitale per un gran numero di persone; il nostro ministero della Difesa desiderava ardentemente metterci sopra le mani. Lo stesso valeva anche per i russi, che avevano fatto tutto il possibile per impadronirsene.»
«Quest'ultima affermazione spiega molte cose.»
«E cioè?»
Koski lanciò un'occhiata a Dover. «La nostra nave è stata una di quelle che hanno cercato il Lax. Era il primo servizio di pattugliamento del Catawaba. A ogni batter d'occhio ci trovavamo a incrociare la scia di una nave sovietica. Credevamo che stessero osservando i nostri sistemi di ricerca. E adesso veniamo a sapere che anche loro erano a caccia del Lax.»
«E questo si collega anche alla ragione per cui ci siamo intromessi nella vostra azione», intervenne Dover. «Dieci minuti dopo che il vostro elicottero è partito, abbiamo ricevuto dal quartier generale della Guardia Costiera un messaggio che ci avvertiva della presenza di un sottomarino russo in esplorazione intorno al pack. Abbiamo cercato inutilmente di metterci in contatto con voi, però non ci siamo riusciti...»
«Non mi sorprende», l'interruppe Pitt. «Era indispensabile che mantenessimo il più totale silenzio radio mentre ci dirigevamo verso il relitto. Ho preso la precauzione di spegnere la radio. Non potevano trasmettere né ricevere.»
«Dopo che il comandante Koski ha comunicato al quartier generale che non riuscivamo a contattare il vostro elicottero», riprese Dover, «è arrivato un messaggio urgente con l'ordine di seguirvi e di farvi da scorta nell'eventualità che il sottomarino russo si fosse dimostrato... invadente.»
«E come ci avete trovati?»
«Avevamo appena superato due iceberg quando abbiamo avvistato il vostro elicottero giallo. Dava nell'occhio come un canarino su un lenzuolo.»
Pitt e Hunnewell si guardarono e scoppiarono a ridere.
«Che cosa c'è di tanto divertente?» chiese incuriosito Koski.
«Fortuna, pura e semplice fortuna», rispose Pitt fra una risata e l'altra. «Noi abbiamo volato come due disperati per tre ore prima di trovare il palazzo del ghiaccio galleggiante, e voi l'avete avvistato cinque minuti dopo aver incominciato a cercarlo.» Quindi spiegò rapidamente a Koski e a Dover la funzione dell'icebergesca e l'incontro con il sottomarino russo.
«Mio Dio», borbottò Dover. «Vuol dire che non siamo i primi a mettere piede sull'iceberg?»
«Le prove sono inequivocabili», disse Pitt. «Quelli dell'aereo in servizio di pattuglia avevano lanciato il colorante, ma la macchia è stata rimossa; inoltre Hunnewell e io abbiamo trovato orme in quasi tutte le cabine dello yacht. E c'è di più, qualcosa che sottrae la situazione al campo del misterioso per collocarla nella categoria del macabro.»
«L'incendio?»
«L'incendio.»
«Senza dubbio è stato accidentale. Ci sono sempre stati incendi a bordo da quando le prime imbarcazioni di canne cominciarono a navigare lungo il Nilo migliaia di anni fa.»
«Sì, ma l'omicidio esiste da tempi ancora più antichi.»
«Omicidio!» esclamò brusco Koski. «Ha detto omicidio?»
«Con la O maiuscola.»
«Se si escludono le devastazioni eccessive, non ho notato niente che non avessi già visto a bordo di almeno otto navi bruciate durante il mio servizio nella Guardia Costiera: cadaveri, lezzo, devastazione, tutto quanto. Nella sua opinione di ufficiale dell'Aeronautica militare, che cosa l'induce a pensare che questo sia un caso diverso?»
Pitt ignorò il tono stizzito di Koski. «È tutto troppo perfetto. L'operatore in sala radio, due macchinisti in sala macchine, il comandante e un ufficiale in plancia, i passeggeri nelle rispettive cabine o nel quadrato, persino un cuoco nella cambusa, tutti esattamente dove dovevano essere. Mi dica, comandante: lei è un esperto. Che genere d'incendio poteva dilagare in tutta la nave e arrostire tutti senza che facessero il minimo tentativo per salvarsi?»
Koski si grattò il lobo di un orecchio con aria pensierosa. «Non ci sono tubi dell'acqua abbandonati nei corridoi. È evidente che nessuno ha tentato di salvare la nave.»
«Il cadavere più vicino a un estintore era a una distanza di almeno sei metri. I membri dell'equipaggio si sono comportati in modo contrario a tutte le leggi della natura umana, se all'ultimo momento hanno deciso di correre a morire nelle rispettive postazioni. Non riesco a immaginare un cuoco che preferisca morire in cambusa anziché salvarsi la vita.»
«Comunque, questo non prova niente. Potrebbe darsi che il panico...»
«Che cosa devo fare per convincerla, comandante? Darle una botta in testa con una mazza da baseball? Mi spieghi la fine dell'operatore radio, se ci riesce. Quell'uomo è morto accanto al suo apparecchio, eppure è stato accertato che, in quei momenti, non venne ricevuta nessuna richiesta di soccorso lanciata dalla Lax o da qualche altra nave nell'Atlantico settentrionale. Mi sembra un po' strano che non fosse riuscito a trasmettere almeno tre o quattro parole di un messaggio per chiedere aiuto.»
«Continui», lo invitò Koski, in tono pacato. Ma i suoi occhi penetranti brillavano d'interesse.
Pitt accese una sigaretta e lanciò nell'aria gelida una lunga nuvola di fumo. Parve riflettere per un momento. «Parliamo delle condizioni del relitto. Come ha ammesso lei, comandante, non aveva mai visto una nave così malridotta. Perché? Non trasportava esplosivi né materiale infiammabile, e possiamo escludere i serbatoi di combustibile... Hanno contribuito ad alimentare l'incendio, certo, ma non nella stessa misura all'estremità opposta della nave. Perché ogni centimetro quadrato doveva bruciare con una simile intensità? Lo scafo e la sovrastruttura sono d'acciaio. E, oltre ai tubi antincendio e agli estintori, il Lax aveva un impianto di nebulizzazione.» S'interruppe e indicò due oggetti deformi di metallo che pendevano dal soffitto. «In mare, di solito, un incendio scoppia in sala macchine, in una stiva o in un magazzino, e poi si diffonde da un compartimento all'altro, e impiega ore, a volte giorni interi per consumare l'intera struttura. Sono pronto a scommettere qualunque cosa che un esperto si gratterebbe la testa e lo considererebbe un incendio-lampo, che ha distrutto l'intera nave in pochi secondi stabilendo un nuovo primato, e che è stato appiccato da cause o persone sconosciute.»
«E che cosa avrebbe in mente, come causa?»
«Un lanciafiamme», rispose Pitt.
Vi fu un momento di silenzio allibito.
«Si rende conto di quello che sta insinuando?»
«Può star certo che me ne rendo conto», annuì Pitt. «Immagino l'esplosione violenta della fiamma, il sibilo atroce dei getti, il fumo emanato dalla carne bruciata. Le piaccia o no, un lanciafiamme è la spiegazione più logica.»
Tutti lo stavano ascoltando con interesse misto a orrore. Hunnewell si lasciò sfuggire un suono soffocato, come se stesse per vomitare di nuovo.
«È assurdo. Impensabile», mormorò Koski.
«È tutto assurdo», ribatté con calma Pitt.
Hunnewell lo fissò. «Non posso credere che siano rimasti tutti lì come pecore e si siano lasciati trasformare in torce umane», mormorò,
«Non capisce?» replicò Pitt. «Il nostro diabolico amico ha drogato o avvelenato i passeggeri e i membri dell'equipaggio. Probabilmente ha aggiunto una dose massiccia di cloralio idrato nei cibi o nelle bevande.»
«È anche possibile che abbia sparato a tutti quanti», commentò Dover.
«Ho studiato diversi cadaveri.» Pitt scosse la testa. «Non c'erano segni di pallottole o di ossa fratturate.»
«E se l'assassino avesse atteso fino a quando tutti non fossero stati messi fuori combattimento dal veleno - e preferisco pensare che siano morti subito - e poi li avesse sparsi per la nave e infine fosse andato da un compartimento all'altro armato di un lanciafiamme...» Koski non finì la frase. «Ma in questo caso... dov'è andato l'assassino?»
«Prima di rispondere a questo interrogativo», disse stancamente Hunnewell, «vorrei che qualcuno avesse la gentilezza di spiegarmi come e dove si era materializzato, tanto per cominciare. È evidente che non era un passeggero e non faceva parte dell'equipaggio. Il Lax era partito con quindici uomini a bordo ed è bruciato con quindici uomini. Secondo la logica, questo eccidio è opera di una squadra arrivata con un'altra nave.»
«Ma non ha senso!» esclamò Koski. «Perché una nave possa abbordarne un'altra dev'esserci un contatto radio. Anche se il Lax aveva preso a bordo i presunti superstiti di un finto naufragio, il comandante l'avrebbe segnalato immediatamente.» Poi sorrise. «Se non ricordo male, l'ultimo messaggio inviato da Fyrie riguardava la prenotazione di una suite all'attico dello Statler-Hilton di New York.»
«Poveraccio», mormorò Dover. «Se la ricchezza e il successo devono portare a una fine del genere, a che cosa servono?» Guardò i resti che giacevano sul ponte e distolse in fretta lo sguardo. «Mio Dio, che razza di maniaco può aver ucciso quindici esseri umani tutti in una volta? Chi può aver avvelenato metodicamente quindici uomini per poi incenerirli con un lanciafiamme?»
«Lo stesso tipo di pazzo che fa esplodere gli aerei di linea per incassare l'assicurazione», spiegò Pitt. «Un individuo capace di uccidere un altro essere umano con la stessa indifferenza con cui lei ammazzerebbe una mosca. In questo caso, è chiaro, il movente era l'interesse. Fyrie e i suoi avevano fatto una scoperta di enorme valore. Gli Stati Uniti la volevano, la Russia la voleva, ma qualcun altro se ne è impadronito.»
«E valeva la pena di fare tutto questo?» chiese Hunnewell con un'espressione disgustata negli occhi.
«Sì, per il sedicesimo uomo.» Pitt abbassò lo sguardo sui macabri resti che giacevano sul ponte. «L'intruso non registrato che ha ucciso tutti gli altri.»
5.
L'Islanda, terra di ghiacci e di fuoco, di ghiacciai tormentati e di vulcani fumanti, un prisma isolano rosso di lava, verde di tundra e azzurro di laghi, si estendeva sotto il chiarore dorato del sole di mezzanotte. Circondata dall'oceano Atlantico, fasciata dalle acque tiepide della Corrente del Golfo a sud e dal gelido mare polare a nord, l'Islanda si trova a metà strada fra New York e Mosca. È un'isola strana, dal paesaggio straordinario, molto meno fredda di quanto si pensi: sulla costa meridionale, la temperatura media, nel mese di gennaio, si attesta su uno-due gradi sotto zero. Per chi la vede per la prima volta, l'Islanda appare veramente come un fenomeno d'ineguagliabile bellezza.
Pitt guardava le vette irregolari e innevate dell'isola ingrandire all'orizzonte e l'acqua scintillante sotto l'Ulysses passare dal blu intenso delle grandi profondità oceaniche al verde vivo sulla risacca. Agì sui comandi e l'elicottero scese con un angolo di novanta gradi secondo una rotta parallela alle scoscese balze di lava che emergevano dal mare. Sorvolarono un villaggio di pescatori annidato in una baia, con i tetti che formavano un mosaico di tegole rosse e di verdi pastello, un avamposto solitario alle soglie del Circolo polare artico.
«Che ore sono?» chiese Hunnewell che si era appena svegliato da un sonno leggero.
«Le quattro e dieci del mattino», rispose Pitt.
«Dio mio! A guardare il sole ci sarebbe da giurare che sono le quattro del pomeriggio.» Hunnewell sbadigliò rumorosamente e tentò invano di stiracchiarsi nello spazio limitato dell'abitacolo. «In questo momento darei il mio braccio destro pur di dormire fra le lenzuola candide di un letto morbido.»
«Tenga aperti gli occhi. Ormai non manca molto.»
«Reykjavik è ancora lontana?»
«Un'altra mezz'ora.» Pitt s'interruppe per controllare gli strumenti. «Avrei potuto tagliare prima verso nord, ma volevo vedere la costa.»
«Sono passate sei ore e quarantacinque minuti da quando abbiamo lasciato il Catawaba. Niente male.»
«Probabilmente avremmo potuto ridurre la durata del volo se non fossimo stati appesantiti da un serbatoio di carburante in più.»
«Se non l'avessimo avuto, in questo momento saremmo chissà dove a cercare di raggiungere a nuoto una costa lontana quasi settecento chilometri.»
Pitt sorrise. «Avremmo potuto lanciare una richiesta di soccorso alla Guardia Costiera.»
«A giudicare dall'umore del comandante Koski quando siamo partiti, non credo che si sarebbe scomodato per noi neppure se fossimo stati sul punto di annegare in una vasca da bagno e lui avesse avuto la mano sul tappo.»
«Nonostante quello che Koski pensa di me, non avrei problemi a conferirgli i gradi di ammiraglio. A mio parere, è un gran brav'uomo.»
«Ha un modo strano di esprimere la sua ammirazione, maggiore», commentò Hunnewell in tono asciutto. «A parte le sue acute deduzioni a proposito del lanciafiamme, e le faccio tanto di cappello, in realtà non gli ha detto un bel nulla.»
«Gli abbiamo detto la verità, almeno come la conosciamo. Se avessimo aggiunto altro, si sarebbe trattato di speculazioni. L'unico fatto concreto che abbiamo omesso è stato il nome della scoperta di Fyrie.»
«Zirconio.» Lo sguardo di Hunnewell era perso in lontananza. «Numero atomico quaranta.»
«Al corso di geologia me la cavavo a stento», sorrise Pitt. «Perché proprio lo zirconio? Che cosa lo rende tanto prezioso da giustificare gli omicidi?»
«Lo zirconio purificato ha un'importanza cruciale nella costruzione dei reattori nucleari perché assorbe poche radiazioni, per non dire nessuna. Tutte le nazioni del mondo che dispongono d'impianti per la ricerca atomica darebbero un occhio per poterselo procurare a camionate. E l'ammiraglio Sandecker è certo che Fyrie e i suoi scienziati avevano scoperto un grosso giacimento di zirconio; doveva essere in fondo al mare, però abbastanza vicino alla superficie perché fosse possibile sfruttarlo senza sostenere spese proibitive.»
Pitti si voltò a guardare dall'abitacolo il blu oltremare che si estendeva verso sud, quasi senza increspature. Scorse un peschereccio con una catena di dory: i minuscoli scafi si muovevano con calma, come se si spostassero su uno specchio colorato. Li guardò distrattamente. I suoi pensieri erano concentrati su quello strano elemento che le gelide acque sottostanti nascondevano.
«Un'impresa formidabile», commentò a voce abbastanza alta perché fosse udibile nonostante il rombo del motore. «I problemi dell'estrazione del minerale greggio dal fondo marino sono enormi.»
«Sì, ma non insuperabili. La Fyrie Limited ha alle sue dipendenze i massimi esperti mondiali nel campo delle estrazioni sottomarine. È stato così che Kristjan Fyrie aveva costruito il suo impero: dragando i diamanti al largo della costa dell'Africa.» Hunnewell parlava in tono d'ammirazione. «Aveva diciotto anni, ed era marinaio a bordo di un vecchio mercantile greco, che abbandonò a Beira, un piccolo porto sulla costa del Mozambico. Non ci mise molto a farsi prendere dalla febbre dei diamanti. A quei tempi c'era un boom, ma le grosse società avevano monopolizzato tutti i territori produttivi. Ecco perché Fyrie finì per spiccare fra tutti gli altri... aveva una mente acuta e creativa. Se i giacimenti di diamanti si potevano trovare sulla terraferma a tre chilometri dal mare, pensò, perché non potevano essere anche sott'acqua, sullo zoccolo continentale? E così ogni giorno, per cinque mesi, s'immerse nelle acque tiepide dell'oceano Indiano fino a quando non trovò un tratto di fondo marino che sembrava promettente. A questo punto, bisognava ottenere finanziamenti per acquistare l'equipaggiamento necessario. Fyrie era arrivato in Africa solo con i vestiti che aveva addosso. Sarebbe stato tempo perso bussare alla porta dei ricchi bianchi. Avrebbero preso tutto e non gli avrebbero lasciato niente.»
«Spesso l'uno per cento di qualcosa è meglio del novantanove per cento di zero», commentò Pitt.
«Ma non per Kristjan Fyrie», ribatté Hunnewell in tono difensivo. «Aveva principi molto islandesi... dividi i profitti, ma non regalarli. Si rivolse ai neri del Mozambico e li convinse a formare una loro cordata, e lui, naturalmente, diventò il presidente e direttore generale. Quando i neri misero a disposizione la somma per l'equipaggiamento, Fyrie cominciò a lavorare per venti ore al giorno fino a che l'intera iniziativa non prese a funzionare come un computer dell'IBM. I cinque mesi d'immersioni diedero il loro frutto, e il dragaggio portò quasi immediatamente in superficie diamanti di ottima qualità. In meno di due anni, Fyrie guadagnò quaranta milioni di dollari.»
Pitt notò un puntolino nel cielo più in alto dell'Ulysses. «A quanto pare ha studiato molto bene la storia di Fyrie», osservò.
«Lo so, può sembrare strano», ammise Hunnewell. «Eppure raramente Fyrie seguiva un progetto per più di qualche anno. Molti altri, al suo posto, avrebbero sfruttato quell'attività fino all'osso, ma non Kristjan. Quando ebbe ammassato una fortuna che superava i suoi sogni più audaci, lasciò la società a quelli che avevano finanziato l'operazione.»
«Vuol dire che gliela regalò?»
«Sì, completamente. Distribuì tutte le sue azioni ai soci locali, istituì un'amministrazione in grado di mantenerla in funzione con efficienza anche senza di lui e ripartì per l'Islanda con la prima nave. Fra i pochi bianchi che gli africani tengono nella massima considerazione, il nome di Kristjan Fyrie viene al primo posto.»
Pitt seguiva con lo sguardo il punto scuro che, nel cielo a nord, si andava rivelando come un agile jet. Si tese in avanti, socchiuse gli occhi per ripararli dal fulgido riflesso azzurro. Era uno dei nuovi executive jet costruiti dai britannici... veloce, affidabile e in grado di trasportare dodici passeggeri per mezzo mondo in poche ore senza bisogno di fare scalo per il rifornimento di carburante. Pitt ebbe appena il tempo di rendersi conto che il mezzo sconosciuto era dipinto di nero dal muso alla coda, prima che quello passasse oltre il suo campo visivo e sparisse nella direzione opposta.
«E poi che cosa fece Fyrie?» chiese.
«Estrasse manganese al largo dell'isola di Vancouver nella Columbia Britannica e sfruttò un giacimento petrolifero off-shore in Perù, tanto per fare qualche esempio. Non ci furono fusioni né creazioni di sussidiarie. Kristjan trasformò la Fyrie Limited in una grande industria specializzata nello sfruttamento geologico sottomarino, niente di più.»
«Aveva famiglia?»
«No. I genitori erano morti in un incendio quando lui era ancora molto giovane. Aveva soltanto una sorella gemella, della quale, per la verità, non so molto. Fyrie l'aveva fatta studiare in una scuola svizzera e, a quanto si dice, più tardi lei diventò missionaria in Nuova Guinea. Pare che le ricchezze del fratello non significassero niente per...»
Hunnewell non finì la frase. Sussultò, si girò verso Pitt con gli occhi sbarrati, la bocca spalancata per lo stupore, ma non pronunciò una parola. Pitt ebbe appena il tempo di vederlo accasciarsi come un morto mentre la sfera di plexiglas che racchiudeva l'abitacolo si frantumava in una miriade di schegge. Pitt si girò di lato e alzò un braccio per ripararsi la faccia dalla raffica d'aria gelida, mentre l'Ulysses, fuori controllo, s'impennava bruscamente verso l'alto, quasi a perpendicolo, scagliando Hunnewell e lui contro gli schienali. In quel momento, si accorse delle pallottole di un'arma automatica che colpivano la fusoliera dietro i sedili. L'improvviso movimento incontrollato salvò temporaneamente la vita a entrambi: il tiratore a bordo del jet nero era stato colto di sorpresa, aveva calcolato male la traiettoria e aveva sparato quasi tutti i colpi contro il cielo.
Nell'impossibilità di eguagliare la modesta velocità dell'elicottero senza andare in stallo, il jet misterioso sfrecciò in avanti e virò di centottanta gradi per tentare un nuovo attacco. Quei delinquenti devono aver descritto un cerchio stretto a est, a sud e a ovest prima di assalirci alle spalle, pensò Pitt, cercando di riportare l'Ulysses in assetto orizzontale, un compito quasi impossibile con uno spostamento d'aria di oltre trecento chilometri orari che gli aggrediva gli occhi. Ridusse la velocità e cercò disperatamente di attenuare la forza invisibile che lo inchiodava al sedile.
Il jet nero saettò di nuovo accanto a lui, ma questa volta non lo colse impreparato. Fermò l'Ulysses a mezz'aria con una brusca impennata, poi lo fece sollevare in verticale. La manovra ottenne l'effetto voluto. Il pilota del jet passò sotto Pitt e il tiratore non riuscì a puntare l'arma contro il bersaglio. Ancora due volte Pitt riuscì a evitare l'attacco: ma era soltanto questione di tempo prima che l'avversario controbilanciasse la sua riserva di trucchi.
Non si faceva illusioni. Non aveva scampo: lo scontro era troppo sbilanciato, il punteggio era sette a zero in favore della squadra ospite, e restavano da giocare pochi secondi del secondo tempo. Con un sorriso rabbioso che accentuò le rughe intorno agli occhi, Pitt fece scendere l'elicottero a non più di cinque metri dall'acqua. Vincere era impossibile, tuttavia c'era una esile possibilità di arrivare a un pareggio. Studiò il jet nero come l'inchiostro: si stava preparando all'ultimo passaggio. Assordato dal clangore folle delle pallottole che penetravano attraverso il sottile involucro d'alluminio dell'Ulysses, Pitt riportò in assetto il piccolo elicottero e rimase librato a punto fisso, mentre l'aereo si tuffava in picchiata verso di lui come un uccello di acciaio.
Il tiratore, che era steso bocconi e sparava da un portello aperto, questa volta agì con calma. Fece partire una raffica di pallottole in attesa che la diminuzione della distanza li portasse sulla strada dell'elicottero. La raffica mortale era ormai a una trentina di metri. Pitt si preparò all'impatto e lanciò l'Ulysses verticalmente verso l'aereo. Quando falciarono lo stabilizzatore orizzontale del jet, le pale del rotore s'infransero. Istintivamente, Pitt disinserì il rotore, e il motore a turbina, non più frenato dal rotore, girò all'impazzata in un urlio di metallo torturato. Poi lo spense, e nel cielo rimase un silenzio rotto solo dal vento che gli fischiava negli orecchi.
Lanciò un'occhiata al jet e lo vide precipitare nel mare di muso, con la sezione di coda che pendeva come un braccio fratturato. Pitt e Hunnewell, che era sempre privo di sensi, non erano in condizioni migliori. Non potevano far altro che aspettare che l'elicottero menomato precipitasse come un macigno per una ventina di metri e finisse nelle acque gelide dell'Atlantico. Quando ci fu il tonfo, fu molto peggio di quanto avesse previsto Pitt. L'Ulysses cadde sul fianco in meno di due metri d'acqua, a una distanza dalla riva che non superava la lunghezza di un campo da football. La testa di Pitt urtò lateralmente contro l'intelaiatura del portello. Un vortice di tenebra lo sopraffece. Per fortuna, il contatto con l'acqua gelida gli restituì i sensi. Fu assalito da ondate di nausea. Fu quasi sul punto di mandare al diavolo tutto il mondo e di abbandonarsi al sonno per l'ultima volta.
Invece reagì. Con una smorfia di dolore, Pitt sganciò la cintura di sicurezza e aspirò una boccata d'aria prima che la cresta di un'onda passasse sopra l'elicottero. Poi liberò Hunnewell, che era ancora svenuto, e gli sollevò la testa al di sopra dell'acqua. In quell'istante scivolò e perse l'equilibrio: un frangente lo aveva strappato dall'Ulysses per scagliarlo nella risacca. Continuò a stringere disperatamente il colletto di Hunnewell e lottò contro l'onda che lo trascinava verso la riva e lo faceva rotolare sul fondo sassoso.
Se mai Pitt si era chiesto che cosa si provasse mentre si annegava, adesso ne aveva un'idea molto chiara. L'acqua gelida pungeva ogni centimetro quadrato della sua pelle come un milione di api. Gli orecchi erano tappati, e la testa era una massa di sofferenza atroce. Le narici si riempivano d'acqua che feriva come un coltello i seni nasali, e le membrane dei polmoni parevano immerse nell'acido nitrico. Alla fine, dopo aver sbattuto le ginocchia contro le pietre, riuscì a rialzarsi, emergendo con la testa nell'aria pura dell'Islanda. E giurò a se stesso che, se mai avesse deciso di suicidarsi, non avrebbe scelto di morire annegato.
Uscì vacillando dall'acqua e avanzò sulla spiaggia coperta di ciottoli, trascinando Hunnewell. Pareva un ubriaco che trascina un altro ubriaco. Quando ebbe superato di pochi passi la battigia, adagiò a terra lo scienziato e gli controllò il polso e il respiro. Erano rapidi ma regolari. Il braccio sinistro, invece, era orrendamente maciullato al gomito dalle pallottole dell'arma automatica. Con tutta la rapidità consentita dalle mani intirizzite, si tolse la camicia, strappò le maniche e le legò introno alla ferita per arrestare il flusso sanguigno. La lesione ai tessuti sembrava grave, però non c'era fuoriuscita di sangue arterioso: quindi Pitt scartò automaticamente l'idea di applicare un laccio e optò per la pressione diretta. Sistemò Hunnewell a sedere contro un macigno, improvvisò una benda e se ne servì per tener sollevato il braccio ferito in modo da rallentare l'emorragia.
Non poteva fare altro. Si sdraiò sullo strato di pietre e si lasciò investire dalla sofferenza e dalla nausea. Per quanto glielo permettevano le sue condizioni, cercò di rilassarsi, e chiuse gli occhi di fronte alla vista magnifica del cielo artico costellato di nubi.
Lo stato d'incoscienza sarebbe durato diverse ore, ma un allarme lontano echeggiò nel profondo della sua mente. D'istinto, rispondendo allo stimolo, spalancò le palpebre appena venti minuti dopo averle chiuse. La scena era cambiata. Il cielo e le nubi c'erano ancora, ma davanti a loro c'era qualcosa. Gli occhi di Pitt impiegarono quasi un minuto per distinguere le sagome di cinque bambini che gli stavano intorno, fissando Hunnewell e lui senza la minima ombra di paura.
Pitt si puntellò su un gomito, si sforzò di sorridere e disse: «Buongiorno, figlioli. Vi siete alzati presto, eh?»
Come a un segnale, i bambini più piccoli guardarono il maggiore che esitò qualche istante e meditò prima di parlare. «Io, i miei fratelli e le mie sorelle badavamo alle mucche di nostro padre, lassù sulla collina. Abbiamo visto il vostro...» S'interruppe.
«Elicottero?» suggerì Pitt.
«Sì, quello.» La faccia del bambino s'illuminò. «Eli-cot-te-ro. L'abbiamo visto nell'oceano.» Un leggero rossore gli colorò la bianchissima carnagione nordica. «Mi vergogno di parlare così male la tua lingua.»
«No, no», lo rassicurò Pitt. «Sono io che dovrei vergognarmi. Tu parli l'inglese come un professore di Oxford, mentre io non so neppure due parole d'islandese.»
Il ragazzino, felice del complimento, sorrise. Poi aiutò Pitt a rialzarsi. «Sei ferito, signore. Ti sanguina la testa.»
«Sopravviverò. Ma il mio amico è grave. Dobbiamo portarlo in fretta dal dottore più vicino.»
«Ho mandato la sorellina a chiamare nostro padre quando vi abbiamo trovati. Verrà qui fra poco con il camion.»
In quel momento, Hunnewell gemette sommessamente. Pitt si chinò su di lui e gli sostenne la testa calva. Lo scienziato aveva ripreso conoscenza. Roteò gli occhi, guardò Pitt per un momento, poi fissò i bambini. Respirava pesantemente e cercava di parlare, ma le parole gli restavano nella gola. C'era una strana espressione di serenità nei suoi occhi quando strinse la mano di Pitt e mormorò con uno sforzo: «Che Dio ti salvi...» Poi tremò e si lasciò sfuggire un gemito soffocato.
Il dottor Hunnewell era morto.
6.
L'agricoltore e il figlio più grande trasportarono Hunnewell al Land Rover. Pitt salì sul pianale e sostenne sulle ginocchia la testa dell'oceanografo. Chiuse gli occhi vitrei e gli ricompose le ciocche di capelli bianchi. Molti bambini si sarebbero spaventati di fronte alla morte, ma i ragazzini che circondavano Pitt stavano tranquilli e silenziosi, con l'aria di accettare l'unica certezza della vita di tutti.
L'agricoltore, un bell'uomo grande e grosso temprato dalla vita all'aria aperta, guidò in silenzio e lentamente su per la stessa strada che conduceva in cima alla scogliera e attraverso il prato, sollevando una nuvoletta di rossa polvere vulcanica. Dopo qualche minuto si fermò davanti a una casetta alla periferia di un villaggio di cascine candide, dominato dalla tipica chiesa islandese.
Un ometto dall'aria seria e dai miti occhi verdi, ingranditi dalle spesse lenti di un paio di occhiali con la montatura metallica, uscì dalla piccola casa. Si presentò come il dottor Jonsson e, dopo aver esaminato Hunnewell, fece entrare Pitt nella casetta, ricucì e bendò il taglio alla testa e gli fece indossare abiti asciutti. Più tardi, mentre Pitt beveva un caffè corretto con acquavite, offerto dal dottore, entrarono il ragazzino e il padre.
Il ragazzo rivolse un cenno a Pitt e disse: «Per mio padre sarebbe un onore portare lei e il suo amico a Reykjavik se è là che vuole andare».
Pitt si alzò e fissò i gentili occhi grigi dell'agricoltore. «Di' a tuo padre che gli sono molto grato, e che l'onore è mio.» Tese la mano e l'islandese gliela strinse energicamente.
Il ragazzo tradusse, e il padre annuì. Poi tutti e due uscirono senza aggiungere altro. Pitt accese una sigaretta e guardò il dottor Jonsson con aria interrogativa. «Il suo popolo è strano, dottore. Siete tutti animati dalla generosità e dalla cortesia, ma esteriormente sembrate privi di ogni emozione.»
«Vedrà, i cittadini di Reykjavik le appariranno più aperti. Qui siamo in campagna. Siamo nati in una terra isolata e aspra, ma molto bella. Gli islandesi che vivono lontano dalla città non amano i pettegolezzi; riescono sempre a capire l'uno i pensieri dell'altro prima ancora di parlare. La vita e l'amore sono cose normali, e la morte è un avvenimento accettato con semplicità.»
«Mi domandavo appunto perché i bambini non sembravano affatto preoccupati di viaggiare accanto a un cadavere.»
«Per noi la morte non è altro che una separazione, e una separazione, per così dire, visiva. Guardi...» Il dottore indicò, al di là della vetrata, il cimitero del villaggio. «Quelli che ci hanno preceduti sono ancora qui.»
Per qualche istante Pitt osservò le lapidi piantate fra l'erba verde e muscosa. Poi la sua attenzione fu attratta dall'agricoltore, che stava portando verso il Land Rover una bara di pino lavorata a mano. L'uomo sollevò il corpo di Hunnewell e lo depose nella cassa tradizionale con la forza e la tenerezza di un padre che prende fra le braccia un neonato.
«Come si chiama l'agricoltore?» chiese Pitt.
«Mundsson, Thorsteinn Mundsson. E il figlio si chiama Bjarni.»
Pitt continuò a osservare la scena fino a quando la bara non fu sistemata sul pianale del fuoristrada. Poi voltò le spalle alla finestra. «Non smetterò mai di chiedermi se il dottor Hunnewell sarebbe ancora vivo, nel caso mi fossi comportato diversamente.»
«E chi può saperlo? Ricordi, amico mio: se lei fosse nato dieci minuti prima o dieci minuti dopo, forse le vostre strade non si sarebbero mai incrociate.»
Pitt sorrise. «Capisco che cosa vuol dire. Ma resta il fatto che la sua vita era nelle mie mani, io ho commesso un errore e lui è morto. Se fossi rimasto sveglio, forse non si sarebbe dissanguato.»
«Se questo può consolarla, il dottor Hunnewell non è morto per l'emorragia. È stato ucciso dallo shock della ferita, dallo shock della caduta dell'elicottero e da quello causato dall'acqua gelida. No, sono certo che un'autopsia dimostrerà che il cuore ha ceduto prima del dissanguamento. Ormai era anziano e, a quanto ho potuto accertare, non era certo un atleta.»
«Era uno scienziato, un oceanografo. Il migliore.»
«Allora l'invidio.»
Pitt guardò con aria interrogativa il medico del villaggio. «Perché dice così?»
«Era un uomo di mare ed è morto in riva al mare che amava, e forse i suoi ultimi pensieri sono stati sereni come l'acqua.»
«Ha parlato di Dio», mormorò Pitt.
«È stato fortunato. E io penso che sarò altrettanto fortunato se, quando verrà il mio momento, verrò sepolto nel cimitero, a poca distanza dal posto in cui sono nato e in mezzo a tanta gente che mi era cara.»
«Vorrei avere anch'io radici così salde, dottore. Ma uno dei miei lontani antenati, evidentemente, era uno zingaro, e ho ereditato la sua passione per i vagabondaggi. Per me, la permanenza più lunga in un posto è stata di tre anni.»
«Un interrogativo interessante: chi di noi è il più fortunato?» sorrise il medico.
Pitt alzò le spalle. «E chi può dirlo? Noi due seguiamo il richiamo di un tamburino diverso.»
«In Islanda», disse il dottor Jonsson, «si direbbe che seguiamo l'esca di un diverso pescatore.»
«Ha sbagliato professione, dottore. Avrebbe dovuto diventare poeta.»
«Oh, ma io sono poeta.» Il dottor Jonsson rise. «Ogni villaggio ne ha almeno quattro o cinque. Non è facile trovare un Paese più acculturato dell'Islanda. Ogni anno vengono venduti cinquecentomila libri e l'intera popolazione del nostro Stato conta poco più di duecentomila persone...»
Jonsson s'interruppe quando la porta si aprì ed entrarono due uomini che indossavano uniformi della polizia. Avevano un'aria calma, efficiente e molto ufficiale. Uno salutò il dottore con un cenno e Pitt ebbe subito il quadro della situazione.
«Non era necessario nascondere che aveva chiamato la polizia, dottor Jonsson. Non ho segreti per nessuno.»
«Non si offenda, ma il braccio del dottor Hunnewell era inequivocabilmente crivellato da pallottole. Ho curato abbastanza cacciatori feriti per accorgermene. La legge è esplicita, come immagino lo sia anche nel suo Paese. Sono tenuto a segnalare tutte le ferite d'arma da fuoco.»
A Pitt l'idea non piaceva molto, ma aveva poco da scegliere. I due robusti poliziotti che gli stavano davanti difficilmente avrebbero creduto alla storia di un jet nero fantasma che aveva attaccato e crivellato l'Ulysses di pallottole prima di essere speronato in volo. Il nesso fra il relitto dell'iceberg e il jet non era una coincidenza e neppure un caso. Ormai era certo che quella che era incominciata come la semplice ricerca di una nave scomparsa si era trasformata in qualcosa di più: probabilmente nel coinvolgimento involontario in una vasta, complessa cospirazione. Pitt era stanco... stanco di mentire, stanco di tutta quella faccenda. Un unico pensiero lo dominava: Hunnewell era morto, e qualcuno doveva pagare.
«Era lei ai comandi dell'elicottero precipitato, signore?» chiese uno degli agenti. Il tono era inequivocabilmente inglese, il tono gentile, ma il «signore» sembrava forzato.
«Sì», rispose Pitt.
Per un attimo, l'agente rimase sconcertato da quella risposta laconica. Era biondo, aveva le unghie sporche e indossava un'uniforme che lasciava scoperti i polsi e le caviglie. «Il suo nome e quello del defunto, per favore», chiese.
«Mi chiamo Pitt, maggiore Dirk Pitt dell'Aeronautica militare degli Stati Uniti. Il morto era il dottor William Hunnewell della National Underwater & Marine Agency.» A Pitt sembrò strano che nessuno dei due poliziotti prendesse nota di quelle informazioni.
«E la destinazione? Senza dubbio era l'aeroporto di Keflavik.»
«No, l'eliporto di Reykjavik.»
Un lampo di sorpresa passò negli occhi dell'agente biondo: fu appena percettibile, ma a Pitt non sfuggì. Il poliziotto si rivolse al collega, un uomo robusto, scuro di carnagione e occhialuto, e disse qualcosa in islandese. Indicò con la testa il Land Rover, fece una smorfia e si rivolse di nuovo a Pitt.